mercoledì 5 novembre 2014
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Monsignor Luigi Bettazzi è già ad Ivrea quando, nella primavera del 1978, alla Olivetti approda un giovane e ruggente Carlo De Benedetti, reduce dai suoi sfortunati cento giorni in Fiat. Il Vescovo e l’Imprenditore, personalità senza dubbio fuori dall’ordinario, incrociano così i loro destini in una fase cruciale per la storia dell’industria italiana. Lo scambio epistolare pubblico e privato trai due 'pesi massimi' è una delle ricostruzioni più riuscite, nella capacità di tratteggiare un’epoca, del poderoso e documentato saggio di Paolo Bricco su  L’Olivetti dell’Ingegnere  in uscita in questi giorni per Il Mulino (pp. 426. euro 20).  Il processo che fra il 1978 e la metà degli anni Ottanta porta il gruppo fondato da Camillo Olivetti e reso unico dal primogenito Adriano a schivare le procedure fallimentari e diventare una delle principali realtà tecnologiche internazionali – ricostruisce Bricco, grazie a un accurato lavoro d’archivio – è accompagnato infatti «da un rapporto non episodico ma costante, non intimo ma intenso» fra il vescovo d’Ivrea e il nuovo capitano d’industria. Un rapporto che proseguirà in qualche modo accompagnando la parabola della Olivetti debenedettiana anche durante la crisi dell’informatica distribuita, iniziata alla fine degli anni Ottanta. E non si cancellerà nemmeno nel passaggio, paradossale e complesso, della metà degli anni Novanta, quando l’azienda sperimenterà la ricerca parossistica di una soluzione per il business tradizionale e, allo stesso tempo, si trasformerà in un operatore telefonico preparando l’addio amaro dell’Ingegnere. Bettazzi recapita dunque il 10 ottobre 1979 una prima lettera aperta a De Benedetti, lettera pubblicata lo stesso giorno sul settimanale canavesano Il Risveglio Popolare.  Il titolo è una domanda frontale che esprime tuttavia una nuova e precisa tendenza – della Chiesa in generale e di monsignor Bettazzi in particolare – a cercare un dialogo, fosse pure serrato, con la modernità e con il mondo dell’impresa: «Perché più profitto e più tecnologia riducono di 4.500 lavoratori l’Olivetti?». Touché. L’Ingegnere deve ad ogni costo raddrizzare un’azienda sull’orlo della bancarotta. È del resto la sua prima, grande sfida. Gli aumenti di capitale da centinaia di miliardi di lire non bastano, e la cura prevede, oltre alla vendita di beni immobili, una drastica riduzione del personale. Ma il solo ventilare possibili licenziamenti nell’«azienda-famiglia» allevata da un visionario come Adriano Olivetti – quella in cui i padri in età di pensione lasciavano direttamente il posto ai figli, quella in cui la fabbrica si dilatava negli spazi sociali della comunità allargata e in quelli culturali del Paese – era considerato praticamente un tabù. Bettazzi, proprio in quest’ottica d’impresa 'comunitaria', considera la decisione di ridurre il personale per aumentare la produttività e mettere a posto i conti semplicemente inaccettabile. E lo scrive con tratto netto, replicando all’imprenditore che, parafrasando la parabola dei talenti, riconduceva il suo operato nell’ottica del salvataggio e rilancio aziendale: «La fantasia di chi, per fortune ambientali e per capacità personale, si trova ai vertici di responsabilità collettive – afferma Bettazzi – si esprime molto meglio nel riconoscimento effettivo della dignità umana di tutti i collaboratori, e quindi nella ricerca di forme partecipative, che non nella ripetizione di chiusure settoriali, espressive di svalutazioni umane e alimentatrici di tensioni sociali». Parole profetiche, pensando a quel che accade oggi in tante altre periferie industriali d’Italia.  Difficile 'quantificare' gli effetti che ebbe questo denso scambio di vedute sulle modalità con cui vennero gestiti quelli che oggi chiameremmo esuberi. Fra l’8 e il 10% del personale fu accompagnato in ogni caso all’uscita con forme di prepensionamento. E la prima fase del rilancio Olivetti andò a buon fine, tanto che in breve l’azienda completò la sua trasformazione e raggiunse nuovamente il successo internazionale con la prima macchina da scrivere elettronica al mondo, l’ET101, e i primi personal computer europei Olivetti M20 e M24. A metà degli anni Ottanta i dipendenti in Italia, pur lontani dai massimi dell’era aurea di Adriano, erano tornati a essere quasi 30mila, premiando le due intuizioni del primo De Benedetti, ovvero il 'capitalismo diffuso' e la strategia delle alleanze internazionali. Poi ci fu la crisi dell’informatica, certo, ma pesarono pure alcuni errori strategici che portarono alla sconfitta dell’impresa d’Ivrea nell’ennesimo round tecnologico con gli altri colossi globali.  Dalle lettere già emerge comunque la domanda di fondo sull’Ingegnere. Ovvero se nella sua lunga avventura a prevalere sia stato maggiormente l’imprenditore outsider e capace di un nuovo stile manageriale o l’uomo dei conti e cioè il finanziere. Di monsignor Bettazzi, invece, si avverte non solo un profilo umano, teologico e pastorale che si espresse in modo concreto nella diuturna vicinanza agli uomini e alle donne dell’Olivetti e alla comunità d’Ivrea, ma anche, allargando lo sguardo, quella attenzione della Chiesa al mondo del lavoro che si è sviluppata fino ai giorni correnti ed è tuttora visibile nelle crisi più recenti e non meno drammatiche dell’industria italiana: dalla Ast di Terni alla Sardegna, da Termini Imerese al Polesine orfano di Porto Tolle.
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