domenica 22 maggio 2011
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«Alfredino l’avevo afferrato, ce l’avevo quasi fatta, ma poi non sono riuscito ad imbragarlo e portarlo su con me. Stremato, dopo 46 minuti a testa in giù, sono dovuto risalire da quel pozzo maledetto...». È il ricordo commosso e pieno di rimpianti di Angelo Licheri, uno dei tanti soccorritori volontari che in quei giorni afosi del giugno 1981 tentarono di strappare alla morte Alfredino Rampi: un bambino di sei anni che a Vermicino, nel comune di Frascati, mentre giocava nei pressi di un cantiere edile era caduto da un terrapieno, scivolando in fondo a un pozzo artesiano. Prigioniero, a 36 metri di profondità. Soccorsi confusi e frenetici dei vigili del fuoco del comandante Elveno Pastorelli che si affidò alla collaborazione di tecnici, un esercito di volontari e la squadra degli speleologi di Tullio Bernabei. Ma l’inesperienza, per una situazione quanto mai anomala, giocò a sfavore. Una sagra delle ingenuità a guardarla a ritroso, a cominciare dal calo di una tavoletta di legno che sarebbe dovuta diventare l’altalena in cui il piccolo Rampi avrebbe dondolato risalendo fino alla cima del pozzo. La tavoletta si incastrò e da giocattolo salvifico divenne uno dei macabri scherzi di un destino avverso. Così come la trivella dalla vibrazione infernale che doveva scavare un canale d’accesso parallelo. Ad Alfredino quella sembrò il braccio rotante di Mazinga, il suo eroe dei cartoni, arrivato fin lì a salvarlo. L’Italia per quasi tre giorni, dall’11 al 13 giugno, durante quel disperato tentativo di salvataggio, rimase incollata alla tv, per quella che viene annoverata come la prima diretta no-stop a reti unificate o come ritengono molti massmediologi, l’inizio dell’era del “reality” . Ma forse sarebbe il caso di parlare di battesimo della “tv del dolore”. Una media di oltre dodici milioni di telespettatori – nelle diciotto ore di diretta continuata – con picchi massimi fino a trenta milioni che oggi farebbero la gioia dell’imprescindibile auditel. «Trenta milioni in preda a un incubo dal quale non riuscivano a liberarsi», disse l’allora direttore de "L’osservatore romano", padre Claudio Sorgi. Una staffetta con inquadratura fissa e il commento accorato che arrivava in casa dalle voci dei giovani inviati Piero Badaloni del Tg1 e Giancarlo Santalmassi del Tg2, affiancati parzialmente dalla neonata Rai3 e da una selva di telecamere e microfoni delle nuove, rampanti tv private. «A me non interessa la televisione. La televisione è esibizionismo. A me interessa di aver sentito la sua voce... Alfredino è un ragazzo che ha un coraggio eccezionale», sbuffò l’ottantacinquenne presidente della Repubblica, Sandro Pertini, facendosi largo nella ridda mediatica accorsa a Vermicino. Con il solito piglio dell’ex partigiano, Pertini arrivò profondamente scosso sul posto e per quattordici ore si strinse a quei due genitori, Ferdinando e Franca, che con dignità attendevano la liberazione di quel loro figlio in pericolo fin dalla nascita per via di una grave malformazione cardiaca. Due quarantenni vissuti fino ad allora nella quiete anonima di una normale famiglia italiana, di colpo assediata dal terrore di una celebrità involontaria, animati soltanto dalla speranza di riportare in superficie quel "passero" dalle ali imprigionate, laggiù nell’ombelico della terra in cui era finito. Gridava Alfredino con tutto il fiato che gli era rimasto in gola: «Mamma, mamma...». Un urlo microfonato che arrivò in tutte le case. Il presidente pianse ed erano le lacrime che si asciugava una nazione tremante. Un’Italia, più in bianco e nero che a colori, aveva già tremato in quell’anno rosso sangue, per l’escalation dei blitz delle Brigate rosse che lo stesso giorno della tragedia di Vermicino avevano sequestrato e poi ucciso Roberto Peci, fratello di Patrizio, il primo terrorista pentito. Quel tonfo sordo di Alfredino in fondo al pozzo, seguiva quello dello sparo della pistola di Ali Agca che un mese prima, il 13 maggio, in piazza San Pietro aveva attentato alla vita di papa Wojtyla. Palpitazioni collettive che in quei tre giorni di giugno vennero amplificate dall’isterica e strisciante rincorsa alla notizia, in quella contrada polverosa diventata il set naturale di una "Nashville de noantri". Anche gli americani si appassionarono alla storia del bambino italiano finito nel "buco nero". Un foro gelido, largo appena trenta centimetri e profondo ottanta metri, in cui, oltre al piccolo Alfredino, per transfert catodico ed emozionale, era scivolato un intero Paese che chiedeva di potergli parlare. Un popolo che tifava per lui come per gli azzurri di Bearzot e che voleva fargli ascoltare la sua voce dal megafono del vigile del fuoco Nando Broglio, che fino all’ultimo ha provato a distrarlo. «Ero già padre di quattro figli e il più piccolo all’epoca aveva sei anni. Mi sono ritrovato a parlargli e non ho smesso più, anche perché se mi assentavo un attimo subito mi cercava. Voleva continuare a chiacchierare con il suo Nando. Quando è finita, è stato davvero come se tutte le nostre vite fossero scivolate giù con lui». Un dramma in cui tutti, grandi e piccoli, si sentirono attori non protagonisti di una tragedia in diretta. Una sceneggiatura che avrebbe meritato la regia poetica di Pier Paolo Pasolini, per eternare le immagini dello psicodramma nazionalpopolare e soprattutto i ritratti della variegata umanità che entrò in scena. «Non ce la facevo più a guardare e a sentire alla tv quel ritornello: “Ecco, siamo quasi vicini al salvataggio di Alfredino”, mentre questo ragazzino non saliva mai... Vado a prendere le sigarette qua sotto e torno, dissi a mia moglie. E invece salii in macchina e mi presentai a Vermicino», racconta Angelo Licheri dal letto dell’ospedale di Velletri dove gli hanno da poco amputato una gamba. All’epoca Angelo, sardo di Gavoi, altezza inferiore al metro e sessanta per quarantaquattro chili di peso, lavorava come autista e facchino per una tipografia romana. Di quella sera del 12 giugno ricorda ogni istante della discesa nel pozzo, cominciata poco prima di mezzanotte. «Legato come un salame arrivai a toccarlo. Alfredino stava come seduto: aveva il braccio destro dietro alla schiena e il sinistro sotto al ginocchio. Cercai di non perdere la calma, gli pulii gli occhietti e la bocca che erano pieni di terra...». Si ferma un attimo Angelo, riprende fiato come se fosse tornato in apnea nel pozzo. Poi riaffiora la rabbia di chi era arrivato a un passo dall’impresa eroica e invece è tornato in superficie fisicamente distrutto e con il morale infangato dalla vergogna di aver lasciato laggiù quella creatura a morire. «Avevo tagli dappertutto, perché il cunicolo era strettissimo e mi ero ferito sfregandomi alle pareti. Quando mi sono ripreso ho pensato che ormai non c’era più niente da fare... I giorni seguenti alla morte di Alfredino non mi davo pace. Provavo perfino il rimorso di avergli fratturato il polso nel tentativo di liberarlo. Oggi invece penso che il rimorso dovrebbero avercelo tutti quegli “scienziati” che dirigevano i soccorsi. Invece di fare arrivare ruspe e trivelle da tutta Italia, sarebbe bastata una paletta da giardino per allargare lo spazio di quel tanto che serviva a imbragare il bambino e portarlo su. E invece, in quei momenti ha prevalso la logica perversa del business e dello spettacolo».Spente le telecamere cominciarono i processi, della serie: tutti colpevoli, quindi tutti assolti. E i piccoli eroi di quella triste storia di Alfredino vennero presto dimenticati. «Isidoro Mirabella, il piccolo muratore che si era calato prima di me, è morto in miseria a gennaio – dice Licheri –. E io non me la passo affatto bene. Gli italiani che fanno tanta solidarietà in tutto il mondo, una volta tanto diano una mano a uno di loro». Dopo Vermicino, per un po’ ci siamo sentiti tutti più poveri, ma perdendo quel bambino questi piccoli eroi dimenticati è come se avessero perso tutto. Il “martirio” di Alfredino ebbe il merito di avviare la macchina organizzativa della Protezione civile. Oggi almeno una cosa è certa: una tragedia come quella di Vermicino non dovrebbe più ripetersi.
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