sabato 3 febbraio 2018
Damiano Michieletto alla Fenice tratta l'operetta di Lehar come un titolo “serio”, facendone uno spunto per riflettere sulla provincia italiana. Trascinante la direzione di Stefano Montanari
La vedova allegra al Teatro La Fenice di Venezia, nella regia di Damiano Michieletto (Michele Crosera/Teatro La Fenice)

La vedova allegra al Teatro La Fenice di Venezia, nella regia di Damiano Michieletto (Michele Crosera/Teatro La Fenice)

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Sembra una commedia all’italiana La vedova allegra, meglio Die lustige Witwe perché proposta tutta, canto e dialoghi) nell’originale tedesco, che ha inaugurato la stagione di Carnevale del Teatro La Fenice di Venezia (spettacolo coprodotto con l’Opera di Roma dove andrà in scena nel 2019). Un ritratto impietoso della provincia italiana. Alla Pietro Germi o alla Mario Monicelli, per intenderci. La provincia dei piccoli risparmiatori. Di uomini con il sogno di un posto fisso, magari in banca. Pronti, la sera, a fare due salti sulla pista da ballo lanciandosi, magari, in qualche avventura galante. Un ritratto impietoso, fatto, però, con il sorriso – che spesso, si sa, può essere più feroce di molte parole al veleno – seppure amaro e venato di malinconia. Come quello dei film di Alberto Sordi, maschera (ma non troppo) tragicomica dell’italiano medio.

Siamo tutti un po’ provinciali dice (impietoso) Damiano Michieletto con uno spettacolo dei suoi, di quelli che ti tengono incollati alla sedia, capace di fare centro rimanendo fedelissimo alla storia, ma raccontandola nel modo che non ti aspetti (tanto che appare quasi come l’unico plausibile e credibile per quel libretto e per quella musica) e che, per questo, ti costringe a riflettere. Capacità che hanno i grandi del teatro. O i grandi in genere. Capacità che nasce dal farsi domande su quello che vedi sia un fatto di cronaca, un fenomeno sociale o un’opera lirica. Questa volta capita con un’operetta, quella di Franz Lehár datata 1905, che Michieletto e la sua squadra (lo scenografo Paolo Fantin, la costumista Carla Teti e la coreografa Chiara Vecchi) prendono molto seriamente, trattandola come una partitura di Mozart, Verdi o Berlioz.

Di cosa parla? Si chiedono. Denaro. Ed ecco che la crisi delle banche irrompe nella Lustige Witwe che il regista veneziano porta tra gli sportelli di un istituto di credito e i tavoli di una balera anni Cinquanta (gli stessi del suo poetico Falstaff). Atmosfere da boom economico a ritmo di rock and roll che nella provincia di oggi (seppur aggiornate a tecnologia e gusti musicali) si respirano ancora.

Una banca radicata sul territorio, dove i risparmiatori si sentono a casa. La crisi di capitale e la necessità di nuova liquidità: il barone Zeta, direttore della Pontevedro bank, spinge Danilo, impiegato sfaticato e donnaiolo, a sposare la vedova Hanna Glawari perché i suoi milioni possano dare ossigeno alle casse della banca. Amori e tradimenti che si consumano in un locale dove un’orchestrina suona le note di Lehár (le trascrizioni per pianoforte, mandolino e fisarmonica Michieletto le ha scovate in Australia), dove Hanna canta al microfono la Canzone di Vilja e dove uomini e donne si scatenano nelle danze ritmate dal podio da Stefano Montanari nel suo tipico look metallaro, pantaloni di pelle nera, maglietta nera e anelli.

Un lettura brillante quella di Montanari, capace anche di abbandoni lirici e squarci melodrammatici nel mettere in luce tutti i cambi di umore della partitura. Assecondato dalle voci in campo, su tutte quella di Christoph Pohl, carismatico Danilo che si concede anche un assolo alla chitarra elettrica. Hanna è Nadja Mchantaf, affidabile nel canto (solo qualche incertezza nella Canzone di Vilja) e trascinante nella danza. Adriana Ferfecka e Konstantin Lee sono gli innamorati Valencienne e Camillo.

Tutti impegnati a far rivivere la storia del libretto (e con gli ingredienti tipici dell’operetta) tra gelosie e sospetti, scambi di persona e colpi di scena. Per raccontare i quali Michieletto gioca la carta (certo un po’ furba, perché rende tutto plausibile) del sogno e della magia. Magia che c’è sin da subito, a sipario abbassato, quando Njegus (non più comico come in molte edizioni, ma poetico e stralunato impiegato di banca impersonato da Karl Heinz Macek) dà il "la" alla storia con un tocco di polvere di stelle che spargerà poi su tutto lo spettacolo, deus ex machina delle vicende: è lui che gioca con il ventaglio che passa di mano in mano e che fa venire in mente Il ventaglio di Goldoni che Michieletto ha messo in scena aggiungendo proprio un personaggio, un Cupido che tesseva i fili della storia.

Sogno che chiude il cerchio quando Danilo si addormenta nel suo ufficio e vagheggia le grisette (che qui sono ballerine da avanspettacolo che cantano – giustamente – in modo sgraziato) risvegliato poi dalla realtà con i vertici della banca che lo richiamano al dovere: sposerà la vedova garantendo un futuro alla Pontevedro bank e permettendo a tutti di continuare a speculare allegramente. Così, tra sogno e realtà si ride a denti stretti di noi.

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