sabato 5 ottobre 2019
Il medievista, in Italia per il Festival della dignità umana, sottolinea l'urgenza di un nuovo approccio della storiografia alla fede facendola uscire da luoghi comuni e narrazioni ormai datate
Vauchez: «La storia cerca santità e responsabilità»
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Sono stato sempre sensibile all’importanza dei luoghi nel campo della religiosità: forse perché in Francia l’insegnamento della storia è stato a lungo abbinato con quello della geografia. Ma forse devo la mia sensibilità in questo campo al fatto che, durante la giovinezza, ma anche da adulto, trascorrevo buona parte delle vacanze nelle montagne del Giura; e potei assistere allo sviluppo del culto tributato negli anni Sessanta a un contadino che attorno al 1830 insieme con la moglie si era trasformato in eremita, vivendo vicino a una chiesa andata in rovina dopo la Rivoluzione francese. Egli consacrò tutte le sue forze a ricostruirla, e s’insediò là in una casetta, ove visse lavorando e pregando, prima di trasferirsi in un altro eremo dopo la morte della moglie. Negli stessi anni e ancora di più durante il mio soggiorno romano cominciai a viaggiare attraverso l’Italia e mi resi presto conto che in molte regioni le forme tradizionali della vita religiosa erano ancora vitali. Bastava andare a ottanta chilometri da Roma verso nord, ovest o sud, per trovarsi immersi in un mondo certamente in via di trasformazione, ma che conservava ancora alcuni tratti fondamentali della civiltà contadina tradizionale, risalenti al Medioevo. Mentre in Francia questa religiosità era scomparsa, o era in via di rapida estinzione o di mera folclorizzazione turistica, in Italia essa sembrava profondamente radicata, e incontrava una larga adesione. Però allora non era facile trovare spazio nel campo degli studi agiografici, che sembrava riservato ai bollandisti e ai filologi.

In quanto storico affascinato dalla storia delle mentalità (che si stava allora pienamente sviluppando nel solco delle “Anna-les”, e alla quale m’aveva iniziato l’insegnamento di Le Goff) cercavo nei processi di canonizzazione le tracce di un contrasto, se non di uno scontro, tra diversi tipi di mentalità, che venivano alla luce in occasione del riconoscimento della fama sanctitatis di un uomo o di una donna morti da un lasso di tempo relativamente breve. Insomma, ho sempre tentato di portare nel territorio dello storico questa terra incognita che è stata a lungo la storia della santità, cui ho dedicato anche l’ultimo libro Tra santi e città, una summa delle mie ultime ricerche tra Chiesa e società, facendo uscire la religiosità dalle “classi subalterne”, come le definivano un tempo gli autori marxisti, e da quelle visioni semplicistiche che la riducono a una forma di protesta sociale o a una manifestazione di arretratezza culturale.

Ma da storico ottantenne non posso ripensare agli anni della giovinezza e del liceo, importanti per me perché mi fecero entrare in contatto con la diversità delle tradizioni religiose. In Alsazia-Lorena infatti era allora in vigore, e lo è tuttora, il concordato napoleonico del 1801 che prevede tra l’altro un insegnamento religioso nel curriculum scolastico; nella mia classe c’erano parecchi ebrei e protestanti e ci dividevamo, al momento dell’ora di religione, per seguire le lezioni del prete cattolico, del pastore e del rabbino, mentre un quarto gruppo, i pochi non credenti, andava a fare i compiti in un’aula di soggiorno… Sono stato profondamente segnato da questa esperienza di laicità e di apertura religiosa, nella quale lo Stato, pur rispettando la libertà di coscienza e rimanendo neutrale sul piano religioso, garantiva non soltanto il libero esercizio del culto, ma anche la manifestazione pubblica della fede. Ciò mi ha aiutato anche nello studio di san Francesco superando il gap sempre più imbarazzante tra i discorsi dei “francescanisti” sempre più sofisticati (e talvolta un po’ esoterici per coloro che non appartenevano a questa confraternita intellettuale) e quello che gli autori di innumerevoli biografie e saggi consacrati al santo d’Assisi in tutte le lingue continuavano imperturbabilmente a scrivere come se tutto questo lavoro scientifico non avesse apportato alcuna novità.

Alla fine resto convinto che un approccio spaziale e territoriale ai fenomeni religiosi possa essere molto fecondo e permetta di rinnovare una storiografia, che dev’essere sempre responsabile e che si è a lungo concentrata sulle strutture di inquadramento ecclesiastico (pievi e parrocchie): come se l’uomo medievale fosse stato del tutto sedentario, e non avesse sentito il bisogno di uscire dal proprio villaggio o dal proprio quartiere, per partire alla ricerca della salute o della salvezza. Che si tratti delle crociate, dei giubilei o dei pellegrinaggi locali, siamo sempre nella stessa prospettiva dello spostamento individuale o collettivo che permette all’uomo di impegnarsi sulla via salutis.

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