venerdì 20 luglio 2012
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​Il nome per intero sarebbe lüsterweibchen o lüstermännchen, ma tutti li chiamano più semplicemente "luster". Sono i lampadari antropomorfi, sospesi a mezz’aria nei salotti o davanti agli usci delle case ampezzane, che con le loro strane fattezze intagliate nel legno e completate da grandi palchi di corna rimandano alla tradizioni della montagna. La loro origine risale ai secoli in cui il confine tra superstizione e realtà era piuttosto labile e l’uomo si affidava a simili figure apotropaiche per scacciare le proprie paure. Proprio di ciò si incaricavano i "luster": vigilare sulla pace domestica, tenendo lontano il Maligno. Bisogna venire in Valle d’Ampezzo per vedere ancora questi curiosi "lampadari con le corna" e incontrare qualcuno che li sappia fare, come Andrea Alberti, giovane ed eclettico scultore, che ci introduce in questo mondo antico e un po’ magico. «Anche se il luster – dice Alberti – ha perso col tempo le connotazioni superstiziose per diventare un simbolo di valori positivi quali l’ospitalità, la cordialità, il lavoro». Benché ridotti al ruolo di raffinati elementi decorativi, i "luster" continuano ad esercitare un fascino straodinario, forse perché testimoni di una cultura autentica, che affonda le sue radici in un’identità secolare, non esattamente affine all’American Express e all’attuale girandola di Vip.Prima che arrivassero l’American Express e i blitz della Finanza, Filippo de Pisis si pagava il soggiorno a Cortina da onesto pittore, lasciando ogni anno qualche tela a Mario Rimoldi, il suo agente turistico. Erano gli Anni Trenta del secolo scorso e il luogo non era ancora celebre; vi si respirava un’aria di paese, un’atmosfera di montagna serena e luminosa. Ci venivano i pittori in cerca di luce e tranquillità, de Pisis, Sironi, De Chirico, Campigli che avrebbero fatto di Rimoldi il più grande collezionista di pittura italiana del ’900: villeggianti con cavalletto, che attendevano di diventare famosi, come il paese che li ospitava. Fino a metà ’800 la Valle d’Ampezzo fu un’area marginale, geograficamente isolata e socialmente chiusa. Staccata nel 1511 dal Cadore, di cui è parte geografica integrante, per essere annessa col Tirolo nell’impero asburgico, ci è stata restituira solo nel 1919, avendo maturato in quei quattro secoli una sorta di identità separata, esclusivamente ampezzana. Gli abitanti vivevano sulla montagna e della montagna, in un rapporto esclusivo in cui si mescolavano credenze e paure, leggende e spiriti maligni, solitudine e isolamento. Chiamavano la loro terra Monti Pallidi, prima che un signore erudito venisse dalla Francia a portare un nome nuovo. Finiva il ’700 quando Gratet de Dolomieu, membro dell’Institut de France, giunse a Cortina e scoprì il segreto delle sue rocce: carbonato doppio di calcio e magnesio, e non semplice carbonato di calcio, come è per tutti gli altri calcari. Un fenomeno unico, di cui unica e irripetibile è la bellezza, specie nella luce dell’alba e del tramonto. La roccia venne chiamata "dolomia" e i Monti Pallidi diventarono "Dolomiti".Qualche decennio dopo fu la volta degli inglesi, più sportivi e avventurosi. Josiah Gilbert e George Cheetam Churchill, con consorti, compirono un lungo viaggio a piedi, tra il 1860 e il 1863, attraverso le valli Isarco, Fassa e Gardena, fino a Cortina d’Ampezzo, dando eco alla loro impresa in un libro, <+corsivo_bandiera>The Dolomite Mountains<+tondo_bandiera>, che colpì come una folgore il mondo della letteratura alpina e di viaggio. Lo spettacolare anfiteatro naturale della conca di Cortina salì agli onori della cronaca turistica e quella fu la base da cui si costruì, nel tempo, quell’immagine patinata, via via sempre più elitaria ed esclusiva, che in realtà aveva poco a che vedere con l’autenticità di quel mondo contadino.Ancor oggi Cortina vive contraddizioni come quella tra la mondanità esibita al passeggio in corso Italia, o nascosta negli chalet da 15.000 euro al metro quadro, e istituti come le Regole d’Ampezzo, l’espressione più antica di quello spirito comunitario che da sempre ha animato questi genti. Definite anche Comunioni Familiari Montane, le Regole sorsero, già all’epoca dei primi insediamenti fissi nella valle, come consorzi delle famiglie originarie per un uso collettivo ed indiviso dei pascoli e delle foreste. Basato sulla proprietà collettiva dei fondi e finalizzato alla conservazione degli stessi, quello disciplinato dai Laudi, gli statuti delle Regole, è uno stile di vita che nei secoli ha regolato con successo il rapporto fra l’uomo e l’ambiente, e ha consentito un uso democratico, rispettoso e lungimirante delle risorse naturali. Lo stesso avviene ancora oggi con un uso oculato e uno sfruttamento compatibile del territorio, come testimonia anche l’esperienza di gestione del Parco Naturale delle Dolomiti d’Ampezzo, un esempio di amministrazione perfetta del patrimonio collettivo. A proposito di Regole, la straordinaria collezione di Mario Rimoldi fu donata alla sua morte, nel 1972, proprio alle Regole d’Ampezzo, che da quella collezione ha fatto nascere il Museo d’Arte Moderna "Mario Rimoldi", ospitato nella Ciasa de ra Regoles. Ad esso si affiancano gli altre due musei delle Regole: l’Etnografico e il Paleontologico "Rinaldo Zardini". Il Museo Rimoldi espone a rotazione le opere della sua collezione e organizza temporanee di altissimo profilo. In questa estate 2012 è il turno di De Pisis e Sironi con le mostre tematiche «Diario senza date. Filippo de Pisis (1896-1956) e Mario Sironi. Opere scelte dalla collezione».
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