lunedì 29 ottobre 2012
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​La strada che porta a Vakifli s’inerpica sul monte, tra boschi di pini e frutteti rigogliosi. Un saliscendi dolce, che di tanto in tanto, quando la vegetazione lascia spazio allo sguardo, regala un colpo d’occhio splendido sulla costa del Mediterraneo. A una manciata di chilometri corre il confine siriano. Siamo nell’Hatay, un lembo di terra nel sud della Turchia, conteso tra i due Paesi, un angolo di Paradiso baciato dal sole dove è facile coltivare pesche, albicocche, agrumi. L’orgoglio di Vakifli sono le arance e i roseti. Oltre alla storia, s’intende. Perché il monte su cui ci troviamo è il mitico Mussa Dagh, e questo paesino di centocinquanta anime è l’ultimo villaggio armeno della Turchia: uno dei sei che, nell’estate del 1915, resistette per 53 giorni all’assedio delle truppe ottomane venute per deportare gli abitanti, finché una nave francese scorse dal mare il telo bianco su cui i superstiti allo stremo avevano cucito una croce rossa, e li portò in salvo.L’epopea degli armeni del "Monte di Mosè", resa celebre dal romanzo di Franz Werfel I quaranta giorni del Mussa Dagh (uscito nel 1933), ebbe poi tante altre pagine: il ritorno nel 1917, e un nuovo esodo nel ’39, quando la Francia scambiò la neutralità di Ankara nella seconda guerra mondiale con quest’appendice di terra, da allora turca. La maggior parte degli abitanti partì, in cerca di una nuova vita in Libano: i loro discendenti abitano ancora la Valle della Bekaa. Qualcuno, però, decise di non andarsene più. «La mia famiglia è sempre rimasta qui, dove tutti noi abbiamo le nostre radici», racconta con orgoglio Elena. Avrà vent’anni. La incontro fuori dalla chiesa di Surp Asdvadzadzin, Santa Madre di Dio, in cima alla salita dove si trova il piccolo centro del villaggio. «Tradizionalmente noi siamo i custodi della chiesa», racconta Elena. Un impegno che è diventato più consistente dal 2002, quando padre Serovpe, l’ultimo sacerdote nativo, è mancato. Il patriarca armeno di Istanbul non ha trovato un nuovo prete da mandare quassù. «Da allora un sacerdote viene in visita di tanto in tanto, per celebrare la messa, ma della parrocchia si prende cura il consiglio pastorale».È difficile immaginare la vita quotidiana - e ancor più un futuro - per un giovane, a Vakifli. L’ultima scuola ha chiuso i battenti all’inizio degli anni Novanta. Per trovare un minimo di vita sociale e di opportunità bisogna scendere a Samandag, la cittadina ai piedi del monte, o ad Antakya, la capitale dell’Hatay, a trenta chilometri da qui. Ma in molti, negli ultimi anni, hanno scelto di partire per la grande città, Istanbul - dove il boom economico è palpabile e la vita per le minoranze più facile -, o addirittura per l’estero. La Germania, soprattutto, già dagli anni Settanta terra della speranza per milioni di Turchi. Fino all’inizio del Novecento, in Anatolia vivevano due milioni di armeni. Oggi, in tutta la Turchia sono circa 50mila. Conseguenza dei massacri e delle deportazioni di massa all’indomani della prima guerra mondiale, ma anche di decenni, dopo la nascita della Repubblica, in cui il nazionalismo estremo, che considerava l’islam parte integrante dell’identità turca, ha reso la vita difficilissima in particolare per le minoranze cristiane, quella armena in testa.A Vakifli, oggi, abitano in maggioranza anziani o persone di mezza età: quelli che non hanno voluto andarsene e quelli che non hanno resistito al richiamo delle radici, e sono tornati al villaggio una volta raggiunta la pensione. Nel pomeriggio, si ritrovano ai tavolini del "giardino del tè", il bar locale, dove si gioca a backgammon sorseggiando bicchierini di raki. Un quadro che si rivoluziona poche settimane all’anno, d’estate, quando gli emigrati vengono a trascorrere qui le vacanze. La popolazione raddoppia, le stradine lastricate di pietra si riempiono di nuovo di bambini, la vita ritorna. Lo scorso agosto, come ogni anno, pullman pieni di armeni, anche della diaspora, sono arrivati in pellegrinaggio per la festa dell’Assunzione. Dopo la celebrazione e la tradizionale benedizione dell’uva, l’intero paese si è riunito attorno ai pentoloni fumanti in cui per tutta la notte era stata cotta l’harissa, il piatto tipico della ricorrenza, e ha continuato a festeggiare fino a sera, quando in piazza le ragazze hanno danzato vestite degli abiti tradizionali.Così la comunità cerca di mantenere viva un’identità in pericolo. Ma per immaginarsi un avvenire, in un villaggio dove non si celebra un matrimonio da 16 anni e i bambini faticano a parlare la lingua dei nonni (l’unica scuola dove potrebbero studiare l’armeno si trova a Istanbul…), servono opportunità concrete. A cominciare dal lavoro. E allora, Vakifli ha deciso di valorizzare la sua eccellenza: la frutta. Qualcuno ha intuito che, per un’Europa affamata di cibo biologico, le arance coltivate da secoli sui tipici terreni terrazzati senza pesticidi o fertilizzanti chimici potessero trasformarsi in prodotti strategici. I primi contatti con i possibili esportatori sono di una decina d’anni fa. Oggi, l’intero villaggio è certificato come "organico" e le arance di Vakifli si vendono nei mercati di Inghilterra, Germania, Olanda. Certo, i margini di guadagno sono limitati. Ma il nuovo corso della Turchia, con le politiche del premier Erdogan che ha cominciato a sollevare il velo su alcuni tabù e ha mandato qualche segnale di distensione alle minoranze religiose (anche sotto la pressione europea), ha raggiunto le colline del Mussa Dagh. Il rilancio agricolo è stato supportato dal governo, e ora l’amministrazione regionale ha elaborato un piano di sviluppo dell’eco-turismo che include la ristrutturazione degli edifici storici per creare una pensione, un ristorante e un nuovo caffè. Viken, uno dei giovani che ha trasformato la tradizione familiare in business, spera che questo basti a non fare scomparire Vakifli. Intanto, la sua prima preoccupazione è mettere su famiglia: «Trovare moglie, quassù, è difficile. Ma andarmene lo sarebbe ancora di più».
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