giovedì 1 febbraio 2024
È necessario ridefinire il rapporto creativo fra la potenza psichica individuale e le forme sociali esistenti: il nuovo libro di Giaccardi e Magatti
Mauro Magatti e Chiara Giaccardi

Mauro Magatti e Chiara Giaccardi - Cristian Gennari/Siciliani

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Concreto vivente, relazionalità, interindipendenza, complessità, trasduzione, metastabilità, neghentropia, sintropia, contribuzione, generatività. Questo nuovo lessico può aiutarci a entrare nella stagione che si sta cominciando a delineare, consapevoli che l’antica questione del rapporto tra la libertà di ciascuno, l’organizzazione sociale e l’ambiente deve essere un’altra volta ridefinita. Con nuove straordinarie opportunità e altrettanti inediti rischi. Siamo davanti a una biforcazione. La vita umana sulla terra ha fatto un balzo in avanti, e di questo si deve essere orgogliosi. Ma proprio il «più vita» che abbiamo generato ora si scontra con le sue contraddizioni. «Lo spirito umano potrà dominare le proprie realizzazioni?» si chiedeva già nel secolo scorso Paul Valéry. Abbiamo bisogno di una sapienza nuova per vivere nella supersocietà, con tutta la sua complessità che non sappiamo pienamente comprendere. E tanto meno governare. Una sapienza che sappia porre in modo nuovo la domanda su cosa è «più vita». Per ogni singolo umano vivente, per tutti gli esseri viventi, comprese le generazioni che verranno dopo di noi. Per questo ha senso riflettere sul principio generativo, che è matrice di vita sovrabbondante, nel legame.

Il principio generativo non è un modello. È un paradigma desumibile dalla realtà, che va declinato nella diversità delle sue forme possibili e nella indeterminatezza dei suoi esiti. In questo senso, esso parla alla libertà che, come occidentali, pensiamo con orgoglio di aver evocato nel mondo intero. Di fronte a quello che accade, non possiamo però non porci delle domande: se non è pensabile tornare indietro – nei mondi cupi delle autocrazie e dei fondamentalismi – come andare avanti affrontando i problemi entropici e antropici che il nostro modello di crescita comporta? Nonostante i passi compiuti nella modernità, la libertà raggiunta nel corso dei secoli rischia di collassare e di far collassare il mondo. La questione che ci sfida nella supersocietà è quella di rafforzare e radicare questa libertà – nei suoi legami con l’organizzazione sociale a base tecnica nella quale viviamo – a un livello più alto di consapevolezza e complessità.

Vita è libertà e libertà è rischio. Il che concretamente significa che non tutto può essere messo sotto controllo. Pena la fine della vita. E della libertà. Lo scrive, poeticamente, Alda Merini: Amare è rischiare di essere rifiutati. Vivere è rischiare di morire. Sperare è rischiare di essere delusi. Provare è rischiare di fallire. Rischiare è una necessità. Solo chi osa rischiare è veramente libero. In una società, che in chiave securitaria sogna il “rischio zero” – tanto nella versione tecnocratica che in quella fondamentalista – è tempo di educarsi a prendersi dei rischi. È la vita che danza, sapendo che non tutti i passi riescono bene, ma in ogni caso intuendo che sulla pista bisogna coordinarsi con gli altri, e che l’insieme può essere comunque armonioso. Abbiamo dimenticato questo movimento, tutti presi dal fascino del fabbricare, del consumare, del funzionare. Oggi è il momento di riconoscerlo, farlo emergere, creare le condizioni perché possa esprimere la sua forza rigeneratrice.

L’individuazione in senso relazionale (coindividuazione), transgenerazionale ed ecologico sembra oggi l’unica alternativa possibile alla perversa alleanza tra individualizzazione e totalizzazione che Michel Foucault aveva colto diversi decenni fa, e che la supersocietà sembra pronta a realizzare pienamente. Il principio generativo ci pare perciò fondamentale per il futuro. Se vogliamo affrontare i problemi entropici e antropici del nostro tempo – cioè fronteggiare davvero la sfida della sostenibilità – la via è quella di comprendere più a fondo, di nuovo, la logica che presiede alla vita in generale e, al suo interno, la sua forma umana. Il desiderio di andare oltre, di esplorare, di essere riconosciuti, di essere coinvolti nella realtà, di stabilire relazioni di senso e affezione – in una parola di avere «più vita» – non si compie mai del tutto, definitivamente, senza conflitti e tensioni. Ma non possiamo non continuare a desiderare di creare luoghi di vita in cui questo dinamismo venga assecondato e possa esprimersi. Luoghi di vita che rispettino il mondo in cui viviamo, dato che, come scriveva José Ortega y Gasset, «Io sono me più il mio ambiente e se non preservo quest’ultimo non preservo me stesso».

Siamo tutti alla ricerca di uno spirito nuovo per il tempo che viene. La metafora dell’orchestra può aiutare a capire come imparare a stare dentro questa nuova configurazione, dinamizzandola. A partire dall’etimologia: in greco orchéomai significa danzo, salto; l’orchestés è il danzatore, e orchestýs l’arte del ballo. In un mondo sempre più segnato dalla interindipendenza c’è bisogno che tutti si possano sentire orchestrali. Artisti/autori educati e formati, accomunati dalla stessa dignità, che desiderano essere riconosciuti per il proprio talento, originale e unico. Ma che suonano sempre con, per e grazie ad altri.

Nella supersocietà, l’abilità a cui siamo chiamati è quella di interpretare il grande spartito della vita. Di creare, nella relazione. E nella bellezza. Di scegliere una via originale, prendendosi la libertà della dissonanza, ma per creare assonanze nuove. Col gusto dell’ascoltare la musica suonata dagli altri, di seguirla, di accompagnarla. Aggiungendovi il nostro originale tocco. Come è stato scritto a proposito del suonatore di jazz e della sua libertà di improvvisare: «senza attenzione si suona, certo, ma si suona come guida chi ha inserito il pilota automatico […]. Un calo di attenzione compromette non solo la capacità di suonare, ma la possibilità di improvvisare in modo generativo, reagendo con sensibilità e prontezza a quanto suonato in precedenza (una qualità denominata alertness o responsiveness), cogliendo le opportunità musicali via via che queste emergono» (Davide Sparti, Suoni inauditi, il Mulino 2005).

Trasformare la stecca, l’errore, l’imperfezione (anche quella esistenziale) in un motivo nuovo, inaudito è una possibilità trasduttiva che richiede come condizione la capacità di prestare attenzione, di fermarsi, di interrompere la successione delle emergenze o il flusso delle distrazioni. E prendersi cura dei legami e del pensiero. Il principio generativo vive di improvvisazione, che non è però cacofonia. Segue il ritmo, si accorda all’armonia, ama la tecnica, conosce approfonditamente lo strumento, sa stare nel gioco complesso della relazione. E, nel contempo, sviluppa novità, non esclude l’errore né il fallimento, ammette sempre nuove biforcazioni. È insieme ordine e disordine, sicurezza e rischio, innovazione e stabilità, unicità e sintonia, dissonanza e risonanza.

In questo contesto, organizzato eppure capace di improvvisare creativamente, il principio generativo ricompone in modo nuovo le dimensioni dello spazio e del tempo, della coesistenza e della intergenerazionalità, intrecciandole in una configurazione inedita: molteplicità nell’unità (nello spazio, nel presente) e cambiamento nella continuità (nel tempo) non sono più alternative, ma forme trasduttive e paradossali, generative di un avvenire umanamente sostenibile. Capace di generare libertà. È questo il cambiamento, radicato nella storia millenaria dell’umanità e del cosmo, che può aprire la strada a un avvenire che non sia mera replica di ciò che già conosciamo o un ineluttabile futuro distopico. Nel quadro di una ridefinizione del rapporto tra l’energia psichica individuale e le forme sociali esistenti. Un orizzonte lontano, solo debolmente definito, difficile da raggiungere. Ma, forse, capace di rimettere in gioco le energie vitali delle nuove generazioni. Di rigenerare la vita, e di far crescere la libertà.

Più sostenibili ripartendo dalla relazione

Marco Ferrando

Sopraffatti dalla complessità, non siamo soliti nutrire grandi aspettative sulle libertà che ci saranno concesse in un mondo costantemente sul punto di rottura: primum vivere, deinde tutto il resto. E così scappiamo più o meno da tutto quanto, gelosi dei nostri rifugi reali o virtuali. Ma se ci fossimo arresi un po’ troppo presto? La domanda è lecita e la risposta tutt’altro che scontata a leggere l’ultimo libro di Chiara Giaccardi e Mauro Magatti, Generare libertà. Accrescere la vita senza distruggere il mondo, che esce il 2 febbraio per il Mulino (pagine 176, euro 15) e del quale anticipiamo sopra il capitolo conclusivo.

Dopo anni di ricerca sulla generatività, un lavoro reso di straordinaria attualità dalla serie di choc socio-economici e geopolitici degli ultimi tre anni, questo libro porta a maturazione il ragionamento. E mette a fuoco prospettive realisticamente non cupe: non tutto è perduto, insomma. Sullo sfondo resta la grande sfida, cioè il passaggio da un capitalismo della crescita a un capitalismo della sostenibilità. Perché il mondo ha corso troppo, e ormai si è perso nei meandri di uno sviluppo tecnoeconomico così spinto da riproporre e rendere assolutamente giustificata la brutale questione della nostra libertà: siamo ostaggio o possiamo ancora decidere qualcosa nel mondo che abbiamo costruito? Ma è proprio qui che la strada suggerita dai due autori - e ispirata dall’incontro con il filosofo francese Bernard Stiegler - scarta, esce dal pessimismo dilagante e, concentrandosi sulla specificità dell’umano, punta dritta in alto verso la relazionalità, il desiderio, la cura.

Partiamo dal desiderio, architrave delle società capitalistiche ma in una versione debole, addomesticata da decenni di consumismo. Forse spaventato da un desiderio-libido che ci apre oltre noi stessi e proprio per questo ci espone agli altri, il capitalismo ha seguito la via più semplice e redditizia: concentrare il desiderio sulle relazioni con le cose e non con le persone. Probabilmente è proprio qui l’inizio della fine, perché una società ossessionata dall’avere tende a porre in secondo piano la centralità delle relazioni.

Ed eccoci al secondo punto, altrettanto fattuale: la dimensione relazionale marginalizzata, quasi negata. È il crocevia dei paradossi, che i processi di digitalizzazione dell’esistenza hanno contribuito ad alimentare: la tecnologia ci sgrava da tante responsabilità, è vero, e ci permette di accrescere le nostre possibilità di vita. Ma, al tempo stesso, ci spinge a vivere nella superficie di ciò che è «datificabile» e ci rende indifferenziati, ricordano Giaccardi e Magatti: aspirando all’autenticità, viviamo nell’inautentico; e nel contesto dell’inautentico e dell’impersonale a svilupparsi sono l’indifferenza, l’incuria, l’irresponsabilità.

A ben guardare sono qui le cause e al tempo stesso gli effetti, delle crisi recenti – globali e locali, sociali e politiche: forse non è l’unica risposta, ma certo se il mondo è a rischio di implosione è anche perché l’uomo ha perso di vista la cura come una modalità chiave per stare al mondo nella sua dimensione collettiva. «Per conoscere la realtà in un modo che non sia solo strumentale, estrattivo, predatorio bisogna volerle bene», ricordano i due sociologi della Cattolica nel passaggio cruciale del loro percorso. Offrendo una curiosa serie di rimandi illustri, da Platone - «La mente non si apre se prima non si è aperto il cuore»- fino a Tolstoj, secondo il quale «tutto, tutto ciò che io capisco, lo capisco solamente perché amo». Sant’Agostino e Hannah Arendt parlavano di «amor mundi». Anche secondo Heidegger è solo attraverso la cura che l’Esserci perviene a Se-Stesso, in modo proprio e autentico.

Dalla relazione alla libertà il passo ormai è breve. Perché, visto al contrario, è nella dimensione individualistica che la libertà si ritrova prigioniera di una trappola. «Evidentemente, quando c’è costrizione, non c’è libertà. Ma quando non c’è costrizione, c’è necessariamente libertà?», si domanda Emmanuel Lévinas, in una illuminante citazione: «La libertà deve essere definita in modo puramente negativo, come assenza di costrizione, o al contrario, la libertà significa la possibilità per una persona, l’appello rivolto ad una persona a fare qualcosa che nessun altro può fare al posto suo? ». La risposta è nel passo “oltre” a cui ogni uomo è istintivamente chiamato per dare compimento e sostanza alla libertà conquistata. E proprio per non cadere in contraddizione con sé stessa, la libertà ha bisogno di essere transitiva, cioè di procedere su altri, così come sono i percorsi di liberazione di chi ci ha preceduto a consentirci la libertà di cui disponiamo.

La libertà, per non tradirsi, deve essere condivisa, ricordano gli autori. E così tornano alla logica del principio generativo: una società desiderabile – anche se mai pienamente realizzabile – è quella in cui è la libertà ciò che circola tra noi. In cui, attraverso la nostra libera iniziativa, ci liberiamo a vicenda. E aprono una nuova via per la sostenibilità, in cui risuona l’eco della Laudato si' di Francesco: la svolta, possibile e alla portata di questa umanità così persa in problemi diversi ma dalla matrice comune, è culturale e antropologica.

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