sabato 17 gennaio 2015
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S’incurva, piega le braccia, serra i pugni e simula il tremolio dello stradone… Riesci a vederla anche tu, la vecchia Frejus sfrecciare sullo sterrato; inspiri l’odore acre delle stoppie e ingolli la nebbia, respiro dopo respiro. Ricordi. Di quando Renzo Franzo era giovane e la nebbia della Bassa era grassa come la sua terra, stocchi e paglie si bruciavano per “aiutare” il letame e l’Italia pensava solo a pedalare più forte. «I più fortunati di noi – racconta – andavano in bicicletta, gli altri a piedi. Vedo tanto scoramento nei giovani di oggi, eppure dovrebbero ricordare che la nostra ripresa è stata ben più incerta e disperata: noi non avevamo davvero nulla ed eravamo divisi. Nel 1948, se t’imbattevi nella compagnia sbagliata, finivi in fondo a un fosso…».Quest’anziano signore che vive a Torino con la moglie novantenne e la figlia architetto ha girato la boa del secolo il 16 dicembre. Per cent’anni ha pedalato e, quando non pedalava, correva: bersagliere sotto le bandiere del Regio Esercito, fascista per forza e democristiano per sempre. «Io sono del Pd, come il mio amico Scalfaro – ricorda – e adesso sostengo Renzi, che deve andare fino in fondo con le riforme e noi insieme a lui: quando la maggioranza decide una linea la minoranza si deve adeguare. Ai miei tempi la politica si faceva così!». Nel Pci lo chiamavano centralismo democratico, nella Dc non lo chiamavano ma funzionava nello stesso modo. §L’ex deputato, uno dei più anziani politici viventi, è un figlio della Lomellina, quel pezzo di Lombardia che ha in uggia Pavia e le terre d’Oltrepo, mentre guarda a Vercelli, cui è legata dalla cultura del riso. Panorami di un’assoluta monotonia – acqua, terra e cielo – che parlano una lingua comprensibile solo ai nativi. Terre basse, delimitate da argini e canali; a prima vista, un territorio fin troppo facile da coltivare e da conquistare: invece, quando Renzo era un bambino, i vecchi del paese raccontavano di come avevano allagato quelle risaie per fermare lo straniero. Non era una favola: fu così che i piemontesi vinsero la seconda guerra d’indipendenza, nel 1859. Anche Franzo ha combattuto: «Un giorno soltanto, quando ho dovuto sparare con la mia pistola di ufficiale contro i carri armati. Mi avevano ordinato di difendere il comando della divisione Piacenza, a Genzano – rammenta –; ma era un comando amministrativo, avevano una mitragliatrice rotta e centinaia di macchine da scrivere». 8 settembre 1943: da qualche ora il nemico erano diventati i tedeschi.Sei anni prima, dopo un soggiorno a Londra, si era laureato in lingue all’Università Cattolica (poi prenderà anche una laurea in lettere) con l’amico Ermenegildo Bertola, vercellese, partigiano e, più tardi, parlamentare pure lui. «Gildo legò con padre Gemelli, il “Magnifico Terrore”, mentre io chiacchieravo di ciclismo con monsignor Olgiati: eravamo entrambi seguaci di Binda e avversi a Guerra. Alla specializzazione, scelsi l’inglese, che era una lingua mal vista negli anni Trenta». Per perfezionarsi nella “perfida Albione” dovette prendere la tessera del Gruppo Universitario Fascista, tuttavia, quando scoppiò la Seconda Guerra Mondiale, quegli studi controcorrente tornarono utili, perché l’ufficiale di Palestro divenne l’interprete degli alti comandi e non vide mai il fronte. «Sono stato fortunato – ammette – anche l’8 settembre: fui arrestato con un gruppo di alti ufficiali e al primo scambio di prigionieri mi misero su un treno». Il resto del suo racconto è degno di Tutti a casa, il capolavoro di Comencini: «Arrivai di notte a Vercelli, dove dovevo presentarmi al comando tedesco, ma appena sceso dal treno trovai il vecchio amico Bertola, che era diventato il presidente del Comitato di liberazione nazionale: mi diede in mano una bicicletta e io sparii attraverso le risaie». Riapparve a Palestro mesi dopo. La confusione aveva raggiunto l’acme: «Ero già il presidente del Cln cittadino ma i fascisti non lo sapevano e mi nominarono commissario prefettizio. In men che non si dica mi ritrovai seduto, io che ero un cospiratore, sulla poltrona del podestà…». Nella temperie postbellica, Franzo incrociò anche un giovanotto di Novara che gli offrì di organizzare un nuovo sindacato rurale: «Con una laurea in inglese e nessun rudimento di agronomia finii a dirigere la Coldiretti di Vercelli e nel ’48 fui eletto, unico dirigente, alla Camera dei deputati». Quel giovanotto novarese era Paolo Bonomi e tra i due nacque un sodalizio fortunato quanto il consenso raccolto dalla Coldiretti: nel 1968 i quaranta presidenti di federazione eletti sotto le bandiere della Dc costituivano un gruppo nel gruppo parlamentare dello scudo crociato, con propri ministri e sottosegretari. «Abbiamo creato un’organizzazione potente, è vero, ma era un potere eretto sulla difesa degli interessi reali delle campagne, che a quel tempo facevano la fame. Non dimentichiamo neppure che nel ventennio postbellico intorno all’agricoltura gravitava il 60% della popolazione italiana mentre oggi – puntualizza con rammarico – il settore primario ha un peso molto inferiore».
Scorrono i ricordi politici dell’umanista prestato all’agricoltura, come lui stesso si definisce nel libro che raccoglie i discorsi parlamentari (1948-1968) e rappresenta l’Italia povera ma bella. Quando una campagna elettorale per essere tale doveva essere «breve, povera e faticosa» e per arrivare a Montecitorio il martedì mattina si doveva viaggiare l’intera notte in treno, giocando a carte con i parlamentari “nemici”. Al professor Franzo non difetta la memoria ed ecco che dal passato riemergono Scalfaro («l’amico e l’alleato di tante battaglie»), Pella («ci incontravamo in trattoria, al crocicchio di Buronzo, che è a metà strada tra Vercelli e Biella»), Fanfani («apprezzava i miei discorsi sulla meccanizzazione agricola, quando nessuno sapeva cosa fosse»), le battaglie con il Pci («non capì l’importanza della pensione e della mutua ai coltivatori diretti e votò contro, perdendo le campagne») e quelle con Sturzo («era condizionato dai latifondisti siciliani e si oppose alla riforma agraria del ’50, che invece portò ad assegnare ai coltivatori diretti 700mila ettari»). Sugli scranni di Montecitorio l’onorevole Franzo ha vissuto quattro legislature e mezza. Quindi, per dieci anni, ha guidato l’Ente Risi: ancora rimpiange l’ammasso pubblico dei raccolti e i prezzi calmierati. La Coldiretti non l’ha mai lasciata, così come l’abbrivio da bersagliere: «Renzi vada avanti, senza mettere troppa carne al fuoco, sennò l’Italia è finita – ammonisce –. Ma nella legge elettorale reintroduca le preferenze perché la gente vuole scegliere chi elegge. Basta candidati imposti dall’alto».
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