domenica 23 gennaio 2011
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«Raccontare i cattivi: c ’è il rischio di farne degli eroi?». Se ne è discusso persino alle nove in Mattina in famiglia, nella placida giornata di sabato su Raiuno: perché il problema si avverte - il dibattito riguardava il film Vallanzasca, ora nelle sale – e molti esempi dimostrano quanto sia cambiata nei decenni, nella narrazione di film e telefilm, la figura dell’eroe, ora sganciata da quel dualismo fra bene e male sul quale si imperniavano le storie classiche, western o gialli, in cui il "cattivo" imperversava ma osteggiato da un "buono" pronto a tutto e destinato a vincere.Ancora resistono questi personaggi, in tv: basti pensare alla costante simpatia con la quale viene seguito ogni giorno su Rete4 Walker Texas Ranger o al fascino onnipresente della Signora in giallo. Ma dominano, negli scenari televisivi attuali, opere notevoli in cui l’eleganza e l’eccellenza della resa si accompagna a una sorta di nichilismo pessimistico quanto ai personaggi. La serie di Sky Romanzo criminale, sulla Banda della Magliana, ha suscitato polemiche, come già prima Il Capo dei Capi (Mediaset) incentrato sulla mafia, e non è un modello soltanto italiano. Negli ultimi giorni Sky ha presentato due lavori – il telefilm inglese Luther e la serie prodotta da Martin Scorsese Boardwalk Empire – in cui la confezione egregia e affascinante, curata nei minimi particolari, ha sottolineato la figura dei protagonisti colti nella loro violenza (il poliziotto di Luther) e nella complessa capacità di costruire e attuare il male, come nella serie di Scorsese che è un film vero e proprio, ricostruzione del Proibizionismo made in Usa, ideale seguito al cinematografico Gangs of New York.Il protagonista vive la sua vita secondo il duplice binario della correttezza affabile del politico e della criminale attività che sorregge il suo potere: e Steve Buscemi dà al personaggio una dominante presenza in cui il male diventa inevitabile e irrefrenabile, accettato in un mondo che non ne avverte il pericolo e sembra non provarne alcun disgusto. Si ha, insomma, la progressiva cancellazione, nelle sceneggiature, del concetto di «colpa» e di quello della «responsabilità», legati alla catarsi finale della giustizia riparatrice. Sono stati per un secolo, nel cinema, lo scheletro di storie e conflitti destinati a diventare immagini e a creare anche inconsapevolmente dei modelli. E il fatto che questo si diffonda attraverso il mezzo estremamente insinuante del telefilm (che ci raggiunge in casa, potenzialmente passivi, e non nella sala cinematografica, nella quale ci poniamo comunque con spirito critico – mi piace, non mi piace, valeva la spesa) fa riflettere sull’effetto-traino di suggestioni che diventano, senza che ce accorgiamo, anche sottili inviti nascosti dall’alibi dell’interesse, dell’approvazione estetica e del coinvolgimento emotivo, tanto più forte quanto più il film è ricco, intenso e ben fatto.
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