martedì 18 settembre 2018
"My home in Lybia", l’intenso docufilm di Martina Melilli, figlia e nipote di italiani nati in Libia. I ricordi di un’epoca frettolosamente censurata si intrecciano al racconto di un giovane libico
Tripoli prima e dopo Gheddafi, famiglie speranze e ricordi lontani
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Lavorare sui ricordi di famiglia per ricostruire una memoria condivisa, dare un nuovo senso alle storie e alle immagini del passato, scavare nelle proprie radici per raccontare il presente e le sue contraddizioni denunciando «amnesie politiche» e collettive voglie di rimozione. Intorno a questi cardini ruota il documentario di Martina Melilli, My home, in Libya, presentato in anteprima all’ultimo Festival di Locarno e proposto stasera a Milano, al Teatro dell’Arte della Triennale nell’ambito del festival Visioni dal Mondo. Immagini dalla realtà, evento del Milano Film Network all’interno della 'Milano movie week'.

La giovane regista veneta, figlia e nipote di italiani nati e cresciuti a Tripoli, sentendo forte il legame con un Paese tanto idealizzato in famiglia e mai conosciuto, ha deciso di tracciare una mappa dei luoghi appartenuti a quel tempo passato grazie ai ricordi del nonno Antonio e di farli ripercorrere da un giovane libico conosciuto sui social, dal nome fittizio di Mahmoud, che invia foto, video e commenti dalla città sfregiata. Ne emerge un ritratto personale, ma anche universale, fatto di diversi linguaggi che cercano di convivere in armonia; tracciato da due giovani che, cresciuti su diverse sponde del Mediterraneo, provano a dare un senso a ciò che è accaduto fino al 1970, quando gli italiani furono cacciati da Gheddafi, e a ciò che succede oggi con la fuga di migliaia di persone da fame e violenza.

Il senso di appartenenza a un paradiso perduto, Martina l’ha scoperto solo qualche anno fa. «Da bambina festeggiavamo Natale mangiando il cus-cus e sapevo che la mia storia familiare era diversa da quella degli altri bambini, ma nessuno aveva mai voglia di rispondere alle mie domande. Poi nel 2010, quando a Bruxelles studiavo cinema documentario in una scuola situata nel quartiere turco marocchino, andavo a bere il the alla menta in un negozietto dove il proprietario mi parlava in arabo perché, diceva, sembravo 'una di loro'. Così ho cominciato a chiedermi cosa quell’uomo cogliesse in me che non era nel mio dna».

Il documentario si inserisce in un progetto dal titolo Tripolitalians che intende indagare il colonialismo italiano in Libia, il grande rimosso nazionale, dimenticato come un trauma o una macchia. «Un progetto aperto, cominciato chiedendo ai miei nonni di raccontare ciò che si sentivano di dirmi. Mi hanno fornito nomi e indizi, io ho contattato le persone a loro vicine in quegli anni, sono andata a trovarli in giro per l’Italia ottenendo altri contatti. I ricordi di quelle persone raccontavano anche la storia della comunità italiana a Tripoli e il cerchio si allargava sempre più. È venuta a conoscenza del progetto anche un’associazione di ex allievi dei Fratelli delle Scuole cristiane di Tripoli, che fa raduni tutti gli anni, e la gente ha cominciato a mandarmi testimonianze, documenti. Il materiale più interessante sul colonialismo italiano poi l’ho trovato in Inghilterra. Ho cercato di creare un fondo in un archivio preesistente e nel 2014 ho organizzato una mostra a Bari. Ora ho in progetto un libro. Continuo a raccogliere materiali, ma più che a un nuovo film penso a uno spazio tridimensionale dove permettere ai visitatori percorsi autonomi. C’è una storia ufficiale e c’è una contro-storia fatta dalle storie personali e molto soggettive delle persone coinvolte. È proprio nella coralità che si crea un racconto complessivo dove ognuno sceglie il senso da dare a ciò che vede».

Oggi però il rapporto con le immagini del passato merita profonde riflessioni e ripensamenti. «C’è una produzione sovrabbondante e acritica di immagini, il recupero di ciò che esiste e il tentativo di dargli un senso nuovo è molto importante. Immagini del passato possono raccontare ancora molto e il montaggio permette dialoghi diversi. È quello che ho cercato di fare anche con lavori precedenti, soprattutto con Il quarto giorno di scuola, che sovrappone materiali di archivio trovati on line a una conversazione via Skype con mio padre che mi racconta quando da bambino, appena arrivato in Italia, era considerato un diverso perché veniva dall’Africa». Colpisce infatti l’ostilità con cui i rimpatriati venivano riaccolti nel nostro Paese, accusati non tanto di essere stati fascisti, ma di rubare il lavoro agli italiani. «Molti italiani si erano trasferiti in Libia spinti dalla miseria, come i contadini del Polesine. Il mio bisnonno era partito come soldato per la campagna di Libia e si era innamorato di quella terra, al punto di tornarci a lavorare come muratore e scalpellino. La mia bisnonna invece era la dama di compagnia della contessa Volpi di Misurata, viveva sei mesi a Venezia e sei mesi a Tripoli».

La situazione della Tripoli di oggi ci viene invece restituita dalle immagini inviate da Mahmoud, che sogna una vita diversa altrove e aiuta lo spettatore a capire le ragioni di chi scappa dall’inferno libico. «In realtà lui qualche mese fa è riuscito a fuggire e ora vive a Istanbul, con un permesso di soggiorno provvisorio. Sappiamo pochissimo di ciò che accade a Tripoli, il mio incontro virtuale con Mahmoud ha cambiato moltissimo del mio film. Volevo mostrare la quotidianità, affetti e normalità di chi vive in guerra, la forza della resilienza umana. Una speranza c’è sempre».

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