domenica 8 maggio 2016
Come è armoniosa la trinità
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La musica è spesso definita come un linguaggio, la cui (relativa) universalità sembra fungere da contrappeso alla sua presunta imprecisione: un brano musicale può commuovere persone di ogni età, cultura o provenienza geografica, ma la musica stessa, si dice, è incapace di veicolare persino un messaggio semplice come chiedere un bicchier d’acqua. Tale visione è però semplicistica, e non tiene conto dell’aspetto simbolico della musica, che è proprio ciò che le permette a un tempo di veicolare un messaggio significativo, senza tuttavia imporlo all’ascoltatore con lo stesso vigore inequivoco del linguaggio verbale: essa suggerisce, adattandosi alle capacità di comprensione, di immaginazione e di sensibilità dell’ascoltatore. Per questo motivo la musica si è spesso dimostrata uno dei mezzi preferiti dai teologi per evocare quello che è il mistero più grande e inattingibile del cristianesimo, ossia la natura una e trina di Dio. Essere uno ed essere tre appare alla ragione umana un paradosso numerico: tuttavia qualcosa di tale mistero insondabile si può intuire e assaporare, contemplare e percepire, attraverso il linguaggio dei suoni. Negli scritti dei Padri della Chiesa si trovano spesso metafore (o meglio simbologie) musicali accostate al discorso trinitario. Per Clemente di Alessandria, l’essere umano è lo “strumento” musicale del Logos, reso armonioso per ospitare e far risuonare l’amore divino, e accogliere la Parola rendendole culto; esso è posto in risonanza dallo Spirito, che, come in un flauto, “soffia” la musica della lode divina nell’essere umano. Inoltre, e più specificamente, essendo immagine del Logos divino, l’uomo partecipa alla comunione trinitaria proprio divenendo “strumento” della lode resa al Padre dal Logos.  La dimensione trascendente della divinità è descritta da Origene in termini musicali: asserendo che Dio non si può identificare con le realtà create, egli sostiene che «l’Uno, la Monade, è il Symphonon, il Consonante con sé medesimo armonioso». Qui la lunga storia di speculazione greca sull’armonia del cosmo si innesta sulla visione cristiana dell’essere divino: l’armonia inerente all’universo, che gli antichi giungevano ad attribuire anche al moto dei corpi celesti (l’armonia delle sfere) riconosce la propria ultima origine in quell’armonia tanto intensa da risultare comunione trinitaria.  Con l’emergere della polifonia, scritta e improvvisata, sul limitare del Medioevo e, più avanti, con la nascita dell’armonia e della tonalità, un numero sempre maggiore di pensatori e musicisti realizzò la singolare capacità della musica di simboleggiare la Trinità. Tre voci che cantano insieme possono realmente essere “uguali” e “distinte”, pur realizzando ciò che all’udito è una sola musica. Inoltre, in virtù delle regole compositive che sovraintendono alla scrittura polifonica, l’impressione dell’ascoltatore è quella di una sovrana libertà delle parti, che tuttavia si mantengono costantemente in dialogo reciproco (anche tramite le “imitazioni”, riprese di frammenti melodici) e non confliggono mai fra di loro. Nel Duecento, il poeta Pierre de Peckham aveva osservato che tre corde di un’arpa «suonano in accordo come la Trinità». È stato inoltre osservato che, nella pala d’altare dell’Agnello Mistico di Jan van Eyck, capolavoro di simbologia trinitaria, uno degli angeli suona, sull’organo, tre tasti (do, sol, mi) che corrispondono alla triade maggiore, destinata a diventare uno dei simboli trinitari più utilizzati. Sembra che una simile simbologia sia osservabile anche nell’incisione Frau Musika con cui Lucas Cranach il giovane accompagna l’omonimo poemetto in lode della musica composto da Martin Lutero. Quest’ultimo, noto per la sua sensibilità musicale, utilizzò le prime note di uno dei modi ecclesiastici più utilizzati per simboleggiare la Tri- nità; ma anche il suo quasi-contemporaneo Ignazio di Loyola ebbe una visione mistica del mistero unitrino in forma di “tre tasti d’organo”, dopo la quale si dice che per lungo tempo non potesse parlare altro che della Trinità. Dal canto suo, il teorico Johannes Lippius, nel Seicento, sosteneva che la «perfetta triade armonica» (ossia l’accordo di tonica) fosse «l’immagine e l’ombra del grande mistero della divina Unitrinità, che sola deve essere adorata», e molti altri teologi e teorici della musica, nei secoli successivi, esplorarono ulteriormente le possibilità simboliche del discorso musicale nell’affrontare il mistero della Trinità. Se la speculazione filosofica e teologica si è indubbiamente avvalsa delle simbologie musicali, anche al livello della musica composta e ascoltata vi è una convergenza corrispondente, in cui l’arte dei suoni sembra prestarsi particolarmente bene a dire l’indicibile e sfiorare l’inattingibile. Fra i moltissimi esempi possibili, uno dei più celebri si trova nel Vespro della Beata Vergine di Claudio Monteverdi (1610): nel Duo Seraphim le tre voci che avevano proclamato l’essere-Tre di Dio sulle note di un accordo di triade convergono poi nell’unisono più puro per richiamarne l’essere-Uno. Anche il compositore spagnolo Francisco Guerrero, sempre in un Duo Seraphim, raggiunge vette efficacissime di rappresentazione simbolica e contemplazione mistica e teologica. Nel brano, composto per l’insolito organico di tre cori (e già questa scelta ha un’immediata valenza simbolica, anche sul piano uditivo), i gruppi vocali intonano ciascuno il nome di una delle Persone divine, iniziando il proprio canto a partire dalle note dell’accordo conclusivo del coro precedente. In tal modo, la comunione, l’inabitazione e la pienezza della vita trinitaria sono adombrate e suggerite dal rifrangersi del suono. Poco dopo, il testo che proclama la natura unitrina di Dio è reso con un artificio acustico affascinante, in cui lo stesso accordo è cantato a turno dai diversi cori, con un effetto di spazialità e di reciproci rimandi che allude alla distinzione e comunione delle Persone divine. Indimenticabile è anche un frammento del Credo della Messa in si minore di Bach ( Et in Spiritum Sanctum).  L’introduzione strumentale è affidata ai due oboi d’amore, che spesso il compositore utilizza in funzione simbolica a rappresentare l’amore mistico. Dall’intrecciarsi delle due melodie degli strumenti, che sembrano tessere una ghirlanda di reciproco amore, sgorga il canto del basso, a simboleggiare la spirazione dell’Amore divino, lo Spirito Santo, dalla bellezza della musica del Padre e del Figlio. Gli esempi si potrebbero moltiplicare, perché in tutte le epoche il fascino del mistero trinitario ha incoraggiato i musicisti a suggerirne la bellezza, laddove la complessità di discorsi puramente verbali rischiava di dissuadere dalla contemplazione incantata. Ovviamente, nessun discorso umano, speculativo o simbolico, può sperare di avvicinarsi alla natura stessa di Dio; eppure, ascoltando alcune delle creazioni con cui musicisti profondamente contemplativi hanno tentato di esprimere la loro intuizione del mistero, qualcosa della bellezza del Dio Trino sembra farsi strada anche nella nostra esperienza, lasciandovi un’incantata nostalgia e un desiderio senza fine.
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