sabato 24 giugno 2017
Il campione di ciclismo Ermanno Manenti: «Ho vinto due ori con il fegato donato, ma l’impresa più difficile fu andare a pagare il riscatto per Soffiantini»
I Giochi si riaprono per i trapiantati
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Le Olimpiadi dispari. Sono quelle di chi nella vita è riuscito a pareggiare i conti con la sorte. Di chi si era sentito dire dai medici che i giochi erano fatti e ora sta invece partendo per Malaga. Dove mezzo secolo fa Fred Bongusto cantava un amore appena nato, domani rinascono altri Giochi, quelli degli anni dispari appunto. Ma, soprattutto, tante vite rinnovate.

Quella che dal 25 giugno al 2 luglio si disputa in Spagna è la ventunesima edizione dei World Transplant Games, le Olimpiadi di chi ha dovuto dire addio al cuore, al fegato, ai reni, ai polmoni, al pancreas ricevendo in cambio la rinascita e nuovi pedali per tornare in sella alla vita. Il dono di un organo diventa podio. Sul gradino più alto. Chi più di tutti ha ripreso a correre tra le quotidiane salite e discese è il bresciano Ermanno Manenti, ciclista prima e ancora di più dopo. Lo spartiacque della sua avventurosa vita è stato, dieci anni fa, il trapianto di fegato, quando aveva 45 anni. Un fegato malato dall’età di vent’anni. «Mi fu scoperta l’epatite B a militare, ero un portatore sano. Sono stato bene per un bel po’ – racconta –, ma poi si è riattivato il virus, l’epatite è diventata cronica e poi è evoluta in cirrosi epatica. Una progressione lenta e lunga negli anni, finché un’ecografia dopo una frattura ha emesso la pesante sentenza: il fegato era ormai compromesso, non restava che il trapianto». Il dono arrivò.

Era il 4 gennaio del 2007 quando Ermanno riebbe la pienezza della vita. Eppure ne aveva avuto più di chiunque altro, di fegato, quando il 2 febbraio del 1998 la sua vita incappò in un altro straordinario evento. «Il trapianto è già di per sé un fatto eccezionale – dice Manenti –, ma il pagamento di un riscatto per la liberazione di un uomo sequestato lo è ancora di più». Fu lui a guidare per centinaia di chilometri la Panda bianca che da Manerbio raggiunse l’Appennino toscano con cinque miliardi delle vecchie lire da consegnare ai sequestratori di Giuseppe Soffiantini. «Ero addetto ai magazzini dell’industria tessile del signor Giuseppe (rimasto vedovo, a 82 anni, lo scorso maggio dopo la morte della moglie Adele, ndr) che avevo conosciuto perché amico di famiglia dei miei suoceri. Ero molto in contatto con i figli, così quando dopo tutti quei lunghi mesi di angoscia e di trattative (Soffiantini fu sequestrato nella sua casa di Manerbio il 17 giugno di vent’anni fa, ndr) arrivò il momento decisivo, mi fu chiesto se ero disponibile ad andare in Toscana con il riscatto. Non ci pensai nemmeno un attimo, anche se avevo due bambini piccoli (Stefano e Michele oggi hanno 34 e 27 anni, ndr). Era normale farlo e lo rifarei anche oggi».

Con lui sulla Panda c’era un amico d’infanzia di Soffiantini. «Siamo stati a contatto diretto coi sequestratori per una decina di minuti su una mu-lattiera tra i boschi – continua Manenti –. Erano armati, abbiamo parlato ma non li abbiamo visti perché ci era stato ordinato di non girarci. Hanno preso i soldi dalla macchina e si sono dileguati». Passò però una settimana prima che, il 9 febbraio del ’98, Soffiantini potesse finalmente telefonare a casa, alla moglie Adele, da uomo libero, dopo otto mesi di una prigionia che lui stesso raccontò nel libro Il mio sequestro, dal quale venne poi tratta la fiction di Canale 5 Il sequestro Soffiantini con Michele Placido nel ruolo del coraggioso imprenditore bresciano. Manenti frattanto continuava a pedalare in sella alla sua bicicletta, con i regolari esami del sangue a confortarlo sulla tenuta del suo malandato fegato, forte di una fibra contadina e di una volontà ferrea. Ultimo di nove fratelli, cresciuto in cascina, nella campagna bresciana. «Me la ricordo bene la Vinaccesca – racconta –, c’era anche la chiesa in quella grande cascina e ci venivano a messa anche gli abitanti di altre cascine nella campagna lì attorno a Manerbio. Eravamo in dodici in casa, la prima sorella aveva 23 anni più di me. Un’altra sorella faceva l’infermiera, così il nome Ermanno me l’ha dato una suora dell’ospedale dove lavorava. Altri tempi, ma io sono rimasto con quella mentalità. Di chi non si arrende mai e nella vita è abituato a pedalare».

Così si è ritrovato a pedalare ancora, anche da trapiantato. Arrivando a vincere le Olimpiadi per ben due volte. «La medaglia d’oro è arrivata nel 2009 in Australia nella 20 km, due anni dopo il trapianto, e nel 2015 in Argentina. Nel 2011 a Goteborg, in Svezia, ero arrivato sesto, mentre nel 2013 in Sudafrica non ero andato. Queste sono le mie quarte Olimpiadi, ma mi sento ancora competitivo. In questi giorni mi sono allenato bene, con i miei 70/80 chilometri ogni mattina per evitare il caldo eccessivo». A Malaga ci saranno però delle novità nelle gare di ciclismo. Martedì 27 si correranno la cronometro individuale di 5 km e la cronometro a squadre di 20 km. «È il primo anno per questa prova in cui si gareggia in tre per squadra e può essere mista, sia uomini sia donne, senza fasce di età – spiega Manenti –. I miei compagni sono due sardi un po’ più giovani: Stefano Carredda e Walter Uccheddu». Mercoledì 28 ci sarà invece la gara in linea, portata quest’anno da 20 a 30 km. Qui, come nella cronometro 5 km, si gareggia per fasce di età e Manenti se la vedrà con i suoi coetane 50-59enni. L’uomo da battere è ancora lui, ma se per caso stavolta gli dovesse sfuggire l’oro la “scusa”, valida, è lì ad aspettarlo al prossimo traguardo: «Io e mia moglie Antonella stiamo per diventare nonni».

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