domenica 23 giugno 2019
Si chiude ad Ascoli la sesta edizione dei Teatri del Sacro. Tanti i temi con linguaggi tra spiritualità, drammi personali, storia e attualità da “Acquasantissima” a “Solitudo” a "Settanta volte sette"
Lo spettacolo “Solitudo” in scena ai Teatri del Sacro / Eugenio Spagnol

Lo spettacolo “Solitudo” in scena ai Teatri del Sacro / Eugenio Spagnol

COMMENTA E CONDIVIDI

Si è conclusa domenica ad Ascoli Piceno la sesta edizione dei Teatri del Sacro, la manifestazione promossa con cadenza biennale dalla Federazione dei Gruppi attività teatrale (Federgat), in collaborazione con l’Associazione cattolica esercenti cinema (Acec), la Fondazione Comunicazione Cultura e l’Ufficio per le Comunicazioni sociali Cei, con il sostengo del Ministero per i Beni e le attività culturali e con il contributo di numerose altre realtà, tra cui la Diocesi di Ascoli Piceno. Alle ore 17, presso il Cinema Piceno, si terrà la proiezione del documentario I nostri, nel quale Marco Santarelli va alla scoperta delle realtà religiose attualmente presenti nella città di Bologna. Alle 19,30, invece, va in scena al Teatro dei Filarmonici Il Vangelo secondo Antonio di Dario De Luca, delicata parabola sul morbo di Alzheimer. Alle 21,30, infine, la chiesa di San Pietro in Castello ospita la replica di Simeone e Samir, diretto e interpretato da Alessandro Berti. Per ulteriori informazioni sul progetto del festival Teatri del Sacro consultare il sito www.iteatridelsacro.it.

Santino non vuole andare in chiesa, Christian non dovrebbe andare al pub, Simeone e Samir non possono andare da nessuna parte e allora se ne stanno lì, nella grotta lasciata deserta dal venerabile eremita. Si raccontano storie, nel frattempo, si sfidano a vicenda con favole e apologhi, si scambiano dubbi e rivelazioni sull’Altissimo. È una caratteristica che attraversa molti degli spettacoli in cartellone ai Teatri del Sacro, questa dell’impedimento e dell’errore: la realtà oppone un ostacolo, che prende spesso la forma del conflitto, e soltanto la misericordia permette di andare oltre, di entrare in una dimensione di condivisione e di riconoscimento dell’altro che è, in definitiva, il cuore stesso dell’esperienza teatrale.

Gli spettacoli che abbiamo provato a elencare sono molto diversi tra loro per ambientazione e soluzioni drammaturgiche. C’è il viaggio all’interno della ritualità ’ndranghetista compiuto da Fabrizio Pugliese in Acquasantissima, c’è la reinvenzione corale della cronaca che Controcanto Collettivo affida alle sequenze di Settanta volte sette, c’è l’esplorazione non convenzionale di un episodio storico – l’incontro del 1219 tra san Francesco d’Assisi e il sultano al-Malik al-Kamil – realizzata da Alessandro Berti in Simeone e Samir sulla scorta dell’omonimo libro di padre Ignazio De Francesco (lo pubblica Zikkaron: www.zikkaron.com). Ma la gamma dei linguaggi presenti nella manifestazione che si conclude oggi ad Ascoli Piceno è ancora più ampia, ancora più coinvolgente. Si va dal caustico cabaret di Sporco negro, rassegna di pregiudizi e luoghi comuni allestita da Kronoteatro, fino alla poetica liturgia di Piccoli funerali cesellata da Maurizio Rippa per 369gradi. In 82 pietre il giovanissimo Simone Corso alterna con buon equilibrio comicità e realismo magico, pur rifugiandosi in una conclusione eccessivamente schematica, mentre sullo sfondo di un analogo scenario meridionale U figghiu di Saverio Tavano trasfigura in senso mistico la misconosciuta e spesso fraintesa esortazione a sopportare pazientemente le persone moleste.

Per questa edizione 2019, com’è noto, il filo conduttore dei Teatri del Sacro è costituito proprio dalla meditazione sulle opere di misericordia, rappresentate quasi nella loro interezza dai dieci spettacoli selezionati nel corso degli ultimi mesi. In alcuni casi la corrispondenza è pressoché perfetta, come accade a in Settanta volte sette, che fin dal titolo si richiama alla difficoltà e necessità del perdono. A riceverlo dovrebbe essere appunto Christian (interpretato da Riccardo Finocchio), un ragazzo semplice fino alla sprovvedutezza, che nel corso di una terribile serata con gli amici si rende responsabile della morte del coetaneo Luca, la cui memoria viene difesa con feroce determinazione dal fratello Gabriele (l’attore Federico Cianciaruso). Ma Christian ha a sua volta una sorella, Ilaria (impersonata da Martina Giovanetti), che con un gesto di generosità istintiva riesce a logorare la logica inappel- labile del rancore. La riconciliazione rimane una possibilità ancora da attuare, una parola rimasta in sospeso nel parlatorio del carcere. Il racconto procede per scene di immediatezza quotidiana, in una giustapposizione di contesti umani e sociali che rende evidente la fatica della comprensione reciproca. Si tratta di una barriera per molti versi simile a quella che inizialmente separa il brigante musulmano Samir (Sergio Brenna) dal medico cristiano Simeone, al quale presta il volto lo stesso Alessandro Berti.

Come ricordato, sono i giorni in cui Francesco fa visita al sultano, in un tentativo di conversione ed eventualmente di martirio destinato a un apparente fallimento. Ma quello che accade a Damietta, dove la “cortesia” di al-Malik risponde all’intraprendenza del Poverello, si riverbera misteriosamente anche nella grotta all’interno della quale i due uomini passano, una volta di più, dal sospetto alla solidarietà, dal temersi come nemici al sostener- si nella prova. Basato su una documentazione rigorosa e sapientemente sviluppata in chiave narrativa (autorevole studioso dell’islam, padre De Francesco è da anni impegnato in progetti educativi nel carcere bolognese della Dozza), Simeone e Samir è un altro spettacolo che consegna allo spettatore la responsabilità del finale. Dopo il loro lungo dialogo notturno, il cristiano e il musulmano non sono più esattamente sé stessi, ciascuno dei due ha assimilato qualcosa dell’altro. La loro storia, forse, comincia adesso.

Più perentorio, almeno di primo acchito, può risultare l’assunto di Acquasantissima, un monologo che nasce da un approfondito lavoro di ricerca nell’immaginario religioso della ’ndrangheta. Un esempio riuscito di teatro civile (per commentarlo è arrivato ad Ascoli don Giacomo Panizza, il sacerdote bresciano che dal 1976 coraggiosamente opera in Calabria), ma anche un’immersione nella psicologia distorta di don Salvatore, il boss che non salta una Messa e intanto in paese dispone della vita e della morte, del benessere e della rovina. Pugliese ne propone un ritratto nervoso e sofferto, nel quale l’eco della riflessione di Michel Foucault sul potere si accompagna alla denuncia delle connivenze anche ecclesiali con l’Onorata Società. «Non eravamo più niente, ed eravamo tutto» è la giaculatoria con la quale Salvatore cerca di proteggersi quando Santino, il figlioccio amatissimo e indisciplinato, si macchia di uno sgarro imperdonabile. Ed è, probabilmente, la prima preghiera autentica in una vita costellata da devozioni superstiziose e genuflessioni interessate. Nella sua purezza elementare, il rito è tutt’altro. È, nella fattispecie, la vertiginosa azione scenica di Solitudo, che la compagnia Le Sillabe ha realizzato in collaborazione con la comunità di Bose. Lungo un’ora di silenzio, dalla quale affiorano rare citazioni dagli scritti di Enzo Bianchi, Fabio Castello, Doriana Crema e Raffaella Tomellini adoperano assi di varie dimensioni per alludere simbolicamente ai momenti che scandiscono l’esperienza monastica. Fino a quando quello stesso legno, tagliato e piallato dall’uomo, non torna a essere bosco, natura, dono di Dio.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: