venerdì 9 ottobre 2020
Nei suoi versi la poetessa statunitense, premiata con il Nobel per la letteratura, si è confrontata con la tradizione classica e con il mistero della bellezza, fino a sfiorare Dio
Louise Glück, insignita del Nobel per la Letteratura 2020, ai National Book Awards di New York nel 2014

Louise Glück, insignita del Nobel per la Letteratura 2020, ai National Book Awards di New York nel 2014 - Ansa

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Nell’infinita galassia della poesia angloamericana non in moltissimi avrebbero scommesso che il premio Nobel per la Letteratura 2020 sarebbe finito nelle sottili mani della pur titolata Louise Glück, già insignita nel 1993 del Pulitzer per Wild Iris (L’iris selvatico, traduzione di Massimo Bacigalupo; Giano 2003) e nel 2014 del National Book Award per Faithful and virtuous night, la sua più recente raccolta lirica.

Le motivazioni espresse dall’Accademia svedese, che ricordano vagamente quelle rivolte all’irlandese Seamus Heaney, sono orientate verso l’«inconfondibile voce poetica che con austera bellezza rende universale l’esistenza individuale». Si tratta, dunque, di un riconoscersi nei suoi versi, un rispecchiarsi come Narciso sulla cresta dell’acqua e trovare prossimità emotiva in tempi particolarmente duri. E in ogni probabilità la scelta dei giurati scandinavi ha più di un legame con le ardue condizioni dettate dalla pandemia e dal Covid-19. Un legame quasi invisibile. Classe ’43, newyorkese proveniente da una famiglia ebraica di origine ungherese, writer-in-residence a Yale, la Glück è nota per i suoi “gesti classicizzanti” nel rivisitare il mito greco e romano, in una sorta di lenta ma inarrestabile catabasi, evidenziata con particolare spigliatezza dalla sua decima silloge Averno, edita negli Stati Uniti nel 2006 e in Italia lo scorso anno (traduzione di Massimo Bacigalupo, postfazione di José Vicente Quirante Rives; Libreria Dante & Descartes, pagine 160, euro 12,00).

Non c’è dunque niente di politico nella designazione, almeno all’apparenza, ma sembra emergere pian piano un significato esistenziale, sociale, empatico. L’attuale lontananza delle nostre vite pare quasi accorciata dalle impressioni in versi di questa autrice di “sola carne”. Glück è infatti una poetessa del fallimento amoroso (due matrimoni alle spalle), del viaggio nei sentimenti, della nevrosi psicanalitica, della ricerca di un’intimità con il mondo e con la propria soggettività in un difficile, se non impossibile, tentativo di risoluzione.

Qualche critico ha parlato di vero e proprio “egocentrismo” e di “depressione” letteraria (aspetto che la accomunerebbe a Emily Dickinson e a Sylvia Plath), ma Glück – in passato tormentata da problemi di anoressia – è semplicemente una voce chiara e distinta, in certo modo beckettiana, della delusione, della sconfitta, della solitudine, del rifiuto. Del fallire e dell’essere più umani. È la voce (raffinata) degli ultimi e dei diseredati, che spesso risuona anche nella tradizione musicale americana. Come una novella Persefone, scrive in uno dei suoi testi più celebri: «Sono stata giovane qui. Prendevo / la metropolitana col mio libretto / [...] non sei sola / diceva la poesia, / nel buio del tunnel».

Le sue liriche sono però anche rimbaldiane, veggenti e palesano sempre, sulla scorta del tragico greco, «un dilemma, un conflitto». Cercano cioè di aprire le superfici porose nella minuta pellicola del reale. Nel bellissimo Iris selvatico, che Massimo Bacigalupo ha definito assai opportunamente “teologia in giardino”, figurano tre voci: il Dio onnisciente, i fiori parlanti e il poeta-giardiniere. «Padre irraggiungibile, quando all’inizio fummo / esiliati dal cielo, creasti / una replica, un luogo in un certo senso / diverso dal cielo, essendo / pensato per dare una lezione: altrimenti / uguale... la bellezza da entrambe le parti, bellezza / senza alternativa... ». Il giardino è la terra, la nostalgia dell’Eden, ed è qui che impariamo a capire «che non era natura umana amare / solo ciò che restituisce amore».

Glück intravede la scintilla divina, ma sempre filtrata secondo un’attenta metafisica nel contingente, che la associa all’amato Rilke, a Robert Lowell e a Elizabeth Bishop. Segnate da astuti riferimenti biblici, le sue poesie riscrivono il rapporto tra Ulisse e Penelope in bizzarri esperimenti sul matrimonio, pronunciano Dante a memoria con Vita nova (1999), acutizzano le relazioni tra madri e figlie nel già ricordato Averno. Tra le righe delle sue tenui strofe, punteggiate di un’ammirevole precisione stilistica, si può leggere spesso, soffuso, il sorgere di un trauma antico («Ma l’assenza / di ogni sentimento, della minima / cura per me... tanto vale che continui / a rivolgermi alle betulle, / come nella mia vita precedente: facciano / pure il peggio, mi / seppelliscano con i romantici, / le foglie gialle a punta / cadano e mi coprano » ).

Con la pubblicazione della raccolta Poems: 1962- 2012 (2012), acclamata da critica e pubblico negli Stati Uniti, si è potuto cogliere, lungo tutto l’arco temporale della sua carriera, quella intensità e quel rigore etico a cui fa riferimento anche il giudizio del Nobel. Nel 2003 è stata nominata dodicesimo poeta laureato degli Stati Uniti. Nel 2015 ha, invece, ricevuto la Gold Medal dall’American Academy of Arts and letters.

Dietro al suo nome pullulano schiere di professori universitari che studiano fervidamente i suoi scritti (anche autografi), trattandola – almeno negli Usa – come un classico indiscusso. In Italia assieme ai due volumi citati, usciti sotto l’egida di Bacigalupo, è da segnalare un’importante presenza nel volume Nuovi poeti americani, a cura di Elisa Biagini, pubblicato per Einaudi nel 2006.

Oltre alla teoria del desiderio e a una precisa volontà iconoclasta (guai a definirla con rigide etichette), tra le principali tematiche annoverabili nell’opera di Louise Glück vi è la natura. Nulla di sorprendente, se non fosse una natura nel senso più ampio del termine, senso che certamente piacerebbe a papa Francesco. Nella poesia Celestial Music c’è un verso rivelatore: «Quando ami il mondo ascolti la musica celeste». I fili tra cielo e terra sono così più annodati. È la natura francescana, quella di cui bisogna avere cura, riuscendo a captare gli spifferi del trascendente. La bellezza cercata da Glück è allora forse la stessa che il febbricitante Ippolit domanda al principe Myškin («ma quale bellezza?») con tanta frenesia, quasi esanime, esangue. Sì, la bellezza senza alternativa.

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