domenica 31 gennaio 2010
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C’è solo un modo per far odiare subito un giornalista dai tifosi: chiedergli di recensire gli inni delle squadre di calcio di serie A, valutandoli dal punto di vista musicale. Fin qui, penserete, ci possiamo anche stare. Ma come la mettiamo col tifo di chi scrive? Chi ci dà la garanzia che il recensore non sia di parte? Lo so che è difficile da credere, ma al mondo esistono persone che possono assolvere questo compito. E per un motivo molto banale: non capiscono nulla di calcio e non l’hanno mai seguito. E quando dico mai, intendo mai: neppure la finale dei mondiali. Se vi siete ripresi dall’orrore, partiamo, muovendoci in rigoroso ordine alfabetico. Il primo inno è Dea dell'Atalanta. E qui si gioca subito pesante. La firma e la voce sono di Roby Facchinetti dei Pooh. Il risultato è una «poohata» (cioè una canzone in stile Pooh) con tanto di ritornello che sembra uscito da Sanremo. Bari Grande Amore è un caso diverso. Scritto da sconosciuti, l’inno del Bari ha lo stile dei Sanremo anni ’70, in bilico tra Pupo, Toto Cutugno e certe cose di Massimo Ranieri, con a un certo punto una scandalosa (voluta?) scopiazzatura di Venditti. Per il Bologna si torna a una firma della canzone: Andrea Mingardi. Da sempre innamorato della black music, per l’occasione parte citando Barry White, per poi virare musicalmente su un tappeto che lo fa sembrare la sigla di uno sceneggiato, più che un inno. Il risultato è così «particolare» che perfino la voce di Mingardi si perde. Quello del Cagliari è l’inno musicalmente più curioso e confuso. Parte, mescolando antichità e modernità, con una citazione dei Les tambours du Bronx, il gruppo francese che suona solo bidoni di metallo. Poi entra un’armonia modello sigla tv anni ’70, sulla quale spunta una chitarra rock. Il cantante ha uno stile tra i Pooh e una band di liscio. Il coro per fortuna è molto efficace. L’inno del Catania è tutto folk. In dialetto e con sonorità che rimandano ai migliori canti popolari che scaldano il cuore in certi banchetti. Chiunque può cantarlo dopo pochi secondi, ma fuori dall’isola temo sia incomprensibile o quasi.Il Chievo si affida all’interista Spagna («Mi ha convinto mio fratello», si giustifica lei) e ne viene fuori uno dei suoi pezzi stile Festival di Sanremo. La canzone è decente ma non scalda i cuori. Grazie a Beldì e a «Quelli che il calcio», l’inno della Fiorentina lo conoscono quasi tutti. Sembra una canzone patriottica degli anni Venti.Il Genoa mette i cori da stadio già all’inizio del suo inno, forse per darsi un po’ di forza. Dal punto di vista musicale non si capisce bene se è una parodia delle sigle dei cartoni animati, del Trio Lescano o di un inno avanguardista. Il caso dell’Inter è un «caso». Messo da parte il buon inno C’è solo l’Inter firmato da Elio (di Elio e le Storie Tese) insiste con Pazza Inter, basato su una ritmica elettropop stile villaggio vacanze. Il cantante (non segnalato) è una schiappa. La durata eccessiva: quasi quattro minuti. Insomma, una noia mortale. Per la Juventus scende in campo Paolo Belli. Che scrive per la sua squadra del cuore una buona canzone pop. Il ritornello («Bianco che abbraccia il nero / Coro che si alza davvero / Juve per sempre sarà») è il più efficace di tutti. In compenso gli interpreti sono tremendi. Stonati e fuori tempo. «Sono i giocatori del 2006» mi sussurra un collega. A me, non tifoso, continuano a sembrare solo orrendi. La Lazio precipita negli anni ’70, tra Dario Baldan Bembo di Amico è e Volo AZ 504 degli Albatross di Toto Cutugno. Terribile. Quello del Livorno ha l’enfasi di Bandiera rossa e la carica di una canzone per soldati. Il Milan scodella un inno molto professionale. Più sigla tv che inno calcistico. L’arrangiamento è molto datato. E la batteria elettronica che compone il ritmo sembra uscita da un computerino da dieci euro. Il ritornello però funziona. La voce di Nino D’Angelo ci accompagna nell’inno del Napoli che inizia col classico «Alé oh oh». Il ritornello anche se esagerato è molto carino, ma le strofe sono accompagnate da un arrangiamento disco-pop anni ’70 davvero tremendo. Sembra di stare nel film di Nino Nu jeans e na maglietta. Il Palermo fa una spericolata alchimia, fondendo un rock alla Europe con atmosfere da fiera di paese. Il cantante urla: «Palermo è forte e vincerà». Contenti loro. Il Parma non è da meno: mescola foxtrot, arie anni ’40 e liscio. Aiuto. Davanti all’inno della Roma il cuore (non tifoso) del recensore ha un tuffo. Siamo davanti all’unica vera canzone di tutta questa serie: Roma (non si discute si ama), firmata da Venditti. «Roma Roma Roma / core de ’sta Città / unico grande amore / de tanta e tanta gente / m’hai fatto ’nammorà». Una sola parola: magggica (nonostante i fiati siano tremendamente datati). La Sampdoria ha ingaggiato i New Trolls. Anche qui più che un inno è una canzone: la storia di un ragazzo con problemi che li risolverli grazie agli amici e allo sport. Niente male. Sull’inno del Siena si toccano vertici di retorica («S’avanza l’undici del Siena / che il cor ci infiamma / che ci incatena») e abissi musicali. Meglio passare oltre. L’ultimo inno è quello dell’Udinese. Lo interpreta una non meglio identificata ragazza. È una canzone pop senza infamia e senza lode. Passa e va, senza lasciare nulla.
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