
Lo scrittore Georges Simenon - Wiki Commons
Sceglieva i nomi dei suoi personaggi consultando gli elenchi telefonici che custodiva in uno scaffale della libreria. Ne annotava una dozzina su una busta, poi per qualche giorno li ripeteva a voce alta camminando in giardino, finché non ne rimanevano due o tre, infine la scelta definitiva. A quel punto, iniziava a scrivere il romanzo, rigorosamente a matita. Un capitolo al giorno, senza sapere all’inizio come la storia si sarebbe sviluppata. Di solito gli occorrevano una decina di giorni o poco più per completarlo, alla fine dei quali arrivava stremato, immedesimandosi fino in fondo col protagonista. Poi, dopo che la moglie trascriveva il manoscritto battendolo a macchina, iniziava l’opera di scarnificazione: via aggettivi, avverbi e tutto ciò che gli pareva ridondante. Parliamo di Georges Simenon, uno dei più prolifici ed eccezionali scrittori del Novecento, noto al grande pubblico per i gialli del commissario Maigret, ma riconosciuto come una sorta di nuovo Balzac grazie a quelli che lui stesso chiamava romans romans o romans purs. In un’intervista alla “Paris Review” del 1957, realizzata negli Usa – e in Italia tradotta da minimum fax nel 1998 con una splendida e devota prefazione di Bruno Gambarotta - l’autore belga racconta i segreti della sua narrativa. «Se c’è una bella frase, la taglio», spiega ammettendo di seguire un consiglio di Colette che all’inizio della sua carriera lo rimproverò di essere troppo letterario. Ma la trama del racconto veniva sempre preservata.
Di Simenon, di cui si torna sempre a parlare grazie all’editrice Adelphi che da molti anni sta ripubblicando le sue opere, è appena uscito il romanzo Il Grande Bob (pagine 168, euro 19,00), mentre al cinema è in sala da poche settimane il film Il caso Belle Steiner di Benoit Jacquot tratto dal libro La morte di Belle. Il primo è del 1954, il secondo del 1951, entrambi scritti quando Simenon si trovava negli States. Ed entrambi con al centro due morti apparentemente inspiegabili, ma molto differenti come trama. Nel primo Bob muore improvvisamente annegando in canoa nella Senna: incidente, omicidio, suicidio? La terza ipotesi pare subito la più probabile, lasciando sgomenti la moglie Lulu e gli amici che trascorrevano un week end a Tilly, nell’Ile-de-France, non lontano dalla capitale. L’amico Charles, medico a Montmartre, indaga per sapere la verità, parlando con Lulu, con la sorella e il cognato di Bob e con i medici che negli ultimi tempi aveva incontrato. Figlio di un eminente avvocato parigino, Bob non si era presentato all’esame di laurea rinunciando a ogni prospettiva di carriera, anzi il giorno stesso diventava compagno di Lulu, una povera giovane che si arrabattava per sopravvivere a Parigi, per poi sposarla. Da allora aveva vissuto un’esistenza tutt’altro che agiata ma affatto miserabile, piena di tante amicizie: era capace di spandere allegria. Da ragazzo, aveva sognato di seguire le orme di Charles de Foucauld in Africa, oppure di vivere «umile fra gli umili», accettando occupazioni di ogni tipo. Soprattutto, amava infinitamente Lulu, pur tradendola qualche volta, lei consapevole, scegliendo di dedicare la sua vita a rendere felice una persona. «Altro che pagliaccio», commenta la sorella. Semmai era uno spirito libero, una sorta di poeta. In tal modo si comprende la decisione di farla finita: per non infliggere dolore a chi ama.
Completamente differente la vicenda, stavolta ambientata in un paesino del New England, di Belle, ragazza universitaria trovata morta a casa dei due adulti che la ospitano. Viene sospettato subito l’uomo, che insegna matematica nel liceo della cittadina e che quella sera si trovava anch’egli in casa, chiuso nel suo studio ad ascoltare musica e a risolvere problemi di algebra. Il dramma a sfondo sessuale, nel romanzo e nel film, ha due finali diversi, entrambi plausibili, a segnare il torbido che può regnare l’animo umano.
Come in tutti i romanzi di Simenon, da La neve era sporca – il preferito dal figlio John, come lui stesso ha rivelato presentando la mostra sullo scrittore aperta a Bologna – a Lettera al mio giudice e L’uomo che guardava passare i treni, prevale un tono cupo e nero, che rivela il tormento per i sensi di colpa che affliggono i personaggi. Il non-senso perlopiù li pervade, sono sempre in bilico fra l’abiezione e il richiamo insopprimibile verso l’innocenza che hanno perduto.
Nell’intervista a “Paris Rewiev”, egli sostiene che un artista «non può mai essere felice» perché cerca di «esplorare ogni recesso della natura umana». Cosa succede quando un uomo, una donna, sono portati al limite? Quando compiono con estrema naturalezza delitti abominevoli? L’incomunicabilità fra le persone, l’incapacità di seguire le orme del padre, la necessità di una fuga dalla routine sono alcuni elementi che tornano nelle sue opere e conducono «il lettore a guardare l’uomo in faccia. Alcuni vorrebbero ancora leggere romanzi che li rassicurino, romanzi che diano loro un’immagine confortante dell’umanità. Ma questo non si può». Per questo qualcuno lo ha definito un Dostoevskij minore, ma in realtà non è affatto lontano dalle vette intense e terribili raggiunte dallo scrittore russo. Quello che gli manca è il dramma della fede.