martedì 6 aprile 2010
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Si torna a parlare di Pasolini. Non si smetterà mai. Troppo alto il poeta e scrittore e regista, troppo contraddittorio, troppo violento. Ci sono troppe verità dentro di lui, e troppi errori, profezie, processi, confessioni, minacce. Adesso si torna a parlare di lui perché ci sarebbe un’altra versione della sua morte, a ucciderlo sarebbero stati in due. E soprattutto perché ci sarebbe un capitolo segreto del romanzo Petrolio, qualcuno pare lo abbia letto, dentro ci sarebbero rivelazioni inconfessabili sulla relazione tra criminalità e politica. In attesa che il testo giunga fra le nostre mani, ragioniamo. Petrolio è un caos: è più di un abbozzo, ma molto meno di un libro. È un magma. Dentro c’è un mondo, ma è informe. Tutti noi, leggendolo (operazione che comunque abbiamo fatto una sola volta: quando è uscito; questo non è un libro che si rilegge), avremmo voluto fermare l’autore e farlo ripetere quel che stava dicendo, impedirgli di illuderci e deluderci. Tutti noi. Ma io (forse) ho una ragione in più, e per questa ragione ne scrivo qui. C’è un punto in cui Pasolini allude alla morte di Mattei e alle trame di Cefis, e dice di aver per le mani un documento segreto portatogli da uno "scrittore veneto", "alto", "con un elegante cappotto blu", "dal cognome che finisce in -on". Molti lettori di Petrolio mi hanno scritto domandandomi: «È lei?». Me lo sono chiesto anch’io: «Sono io?». "Scrittore veneto" è una definizione che mi comprende. Per Pasolini "veneto" significa "separato dal friulano". Ci siamo visti, lui e io, una dozzina di volte: a Milano, dal comune editore Garzanti, alla Casa della Cultura di via Borgogna; a Grado; a casa sua all’Eur, vicino alla chiesa degli Apostoli Pietro e Paolo: abitava in una villetta borghese, tutta a pianterreno, con un ampio giardino, nel quale una sera ho visto transitare a mezz’aria una fila di lucciole. Lo ricordo perché lui è famoso per l’"articolo delle lucciole", alla fine del quale, maledicendo il progresso che ha distrutto la civiltà naturale e contadina e ha fatto morire le lucciole, esclama che lui darebbe «tutta la Montedison per una lucciola». Ci chiamavamo per nome, "Pier Paolo", "Ferdinando", ma sempre col "lei". "Alto": per lui ero alto, perché lui era piccolo. "Con un elegante cappotto blu": effettivamente in quegli anni (gli ultimi della sua vita) avevo un cappotto lungo, di colore blu scuro. Niente di notabile. Lui l’aveva notato? E perché? "Dal cognome in -on": questo restringe parecchio la rosa. Sgorlon non può essere, perché gravitava in un’altra area, l’impegno lo disgustava. Ma, se sono io, Pier Paolo mi caricava di un ruolo storico che non avevo: scrivevo, sì (come tutti gli scrittori italiani, allora), sul giornale dell’Eni, voluto da Mattei, ma ero (e sono) uno scrittore, senza alcun legame con servizi segreti, associazioni terroristiche, criminalità organizzata: ritenevo (e ritengo) che uno scrittore scrive, e si ferma lì. Se scavalcherà la morte e si salverà dall’oblio, lo dovrà ai suoi libri, non alla politica o ai protettori o al potere conquistato o alle relazioni nazionali o internazionali. Pasolini lo dovrà a mille pagine delle sedicimila circa (otto Meridiani da duemila pagine l’uno) che ha scritto, e a due-tre film. A noi, che scrivevamo sul giornale dell’Eni, non era giunta nessuna voce sulla morte del padrone dell’Eni. Nessun fascicolo. E io (se è di me che parla) non ho dato nessun documento segreto a Pasolini. Sono grato alla magistratura, che certamente avrà letto Petrolio, ma non mi ha mai chiesto spiegazioni. Alla magistratura sono doppiamente grato perché c’è un altro incrocio, stavolta molto più concreto, fra i miei piccoli libri e la grande Storia. Ho un libro sul terrorismo nero per scrivere il quale mi sono procurato documenti (segreti, questi sì) in una libreria di estrema destra. Questa libreria era aperta solo un giorno alla settimana, e solo dalle ore 22 alle 24. Lì ho trovato libri e opuscoli preziosi (per il mio lavoro) sulla razza, sulla eticità della strage, sul diritto di uccidere. Undici pagine di questo materiale le ho calate, rigenerandole, nel libro che scrivevo. La polizia ha trovato queste undici pagine, ricopiate a mano su un quaderno, tutte in maiuscolo, nel covo della cellula sospettata, poi accusata, infine condannata per la strage alla stazione di Bologna. Nell’accusa e nella condanna si sostiene che lì sta il movente. Dunque avrei consegnato il movente alla polizia. Senza saperlo. La magistratura ci ha lavorato sopra per anni senza mai chiedermi nulla. Le sono grato. Quando esco dalla stazione di Bologna e vedo la lapide con lo sterminato elenco delle vittime, dico loro, dentro di me: «Per voi ho fatto quel che ho potuto». Quando vado al cimitero di Pasolini, a Casarsa, non lontano da casa mia (sta in una tomba doppia, insieme con la madre: idea di Moravia e Siciliano), mi vengono in mente le sue poesie in dialetto friulano, Le ceneri di Gramsci, La religione del mio tempo, Ragazzi di vita, Una vita violenta, Il Vangelo secondo Matteo…: a Petrolio non penso mai, come se non esistesse.
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