mercoledì 23 gennaio 2013
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Il 24 gennaio la presentazione con Bertone e WeilerViene presentato il 24 gennaio alle 17, all’Auditorium Conciliazione di Roma, «La porta stretta» (Cantagalli) del cardinale Angelo Bagnasco; all’incontro intervengono il segretario di Stato Tarcisio Bertone e Joseph H.H. Weiler, della New York University School of Law; modera il giornalista Aldo Cazzullo. Il testo – da cui in questa pagina riprendiamo la parte iniziale dell’introduzione del teologo Piero Coda – raccoglie le prolusioni pronunciate dall’arcivescovo di Genova e presidente della Cei negli ultimi 5 anni. Gli anni del primo mandato del cardinale Bagnasco hanno coinciso con un’ondata di grandi cambiamenti per il mondo, e di conseguenza per l’Italia. In un momento cruciale per il nostro Paese, l’arcivescovo propone una lettura lucida ma non distaccata delle questioni scottanti del nostro tempo e suggerisce la strada per rispondervi con soluzioni concrete. A fronte di tante analisi «tecniche» sulla crisi e le vie per uscirne, la prospettiva della Chiesa che si riflette nelle parole del presidente Cei consente di osservare la situazione a livello più ampio e profondo, mostrando una vicinanza tangibile ai disagi e alle incertezze che pesano sulla vita delle persone.Con la metafora evangelica della «porta stretta», attraverso cui è necessario passare per accedere alla vita, Gesù richiama il fatto che alla vita vera e piena non si accede passando per ogni dove e, più ancora, che la porta specifica attraverso cui occorre transitare chiede attenzione, decisione, impegno e ogni sforzo. Ciò, del resto, è di ogni cosa umana che meriti questo nome: quel che vale e porta frutto non è mai facile o banale. E se anche è vero, nell’ottica della fede cristiana, che «tutto è grazia», non bisogna equivocare sul significato e la responsabilità di questa basilare verità: perché la grazia, in realtà, non è mai «a buon mercato». Anzi, se è vero che ci è donata senza nostro merito, è altrettanto vero che, per essere accolta, chiede che prendiamo saldamente in mano tutt’intera la nostra intelligenza e libertà: per riconoscerla, questa grazia, per accoglierla, per esserne grati e per portarla a buon frutto. Come descritto incisivamente nella parabola dei talenti diversamente distribuiti e diversamente trafficati. Dunque, la «porta stretta». Una metafora, e in essa un imperativo, che ben s’attagliano all’esistenza cristiana. Oggi, poi, essa viene a esprimere senza mezzi termini il passo che ci è chiesto. Subito ci viene di pensare alla grave situazione di crisi economica che travaglia il nostro oggi e che di più in più si palesa come la punta d’iceberg d’una crisi più profonda e generale, che tocca le radici stesse dell’uomo e investe la figura e il progetto dei nostri destini, ponendo di fronte a noi, ineludibili, degli interrogativi che urgono e più non si possono disattendere. In questo vasto contesto, anche la situazione che vive la nostra Italia, a livello politico e socio-culturale oltre che economico, non denuncia pure essa la necessità di un improcrastinabile e costoso passaggio ad altro? E la Chiesa – come, con pacata autorevolezza e vigile senso profetico, ci ha indicato Benedetto XVI indicendo l’11 ottobre scorso un “Anno della fede” – non è chiamata essa stessa a compiere, ancora una volta, ma come fosse la prima, l’esodo pasquale attraverso quella porta vivente che l’amore del Padre ha spalancato una volta per sempre, davanti a noi, in Cristo Gesù? Il cammino, l’esodo, il transito attraverso la «porta stretta», dunque, non sono una condanna né tanto meno un destino amaro, ma la possibilità preziosa che, a vari livelli e in vari modi, oggi ci è offerta. Un vero e proprio kairós. Non si tratta di un «no», ma dell’accesso a un «sì» più grande, più vero, più giusto, più condiviso. (...)
Due peculiari qualità danno stagliata figura e contenuto pregnante all’insegnamento e al servizio di guida e indirizzo. La prima qualità è la pastoralità: nel senso alto e preciso, e al tempo stesso pervasivo e quotidiano, che si è fatto strada, nel cammino della Chiesa cattolica, col Concilio Vaticano II. Il che viene a rimarcare, in buona sostanza, soprattutto che il porro unum necessarium («ma solo una cosa è necessaria») della vita del popolo di Dio è la sequela di Cristo, e che la dispensazione del dono di verità e di grazia di cui la Chiesa è ministra si fa nel segno della prossimità e dell’amicizia. È Dio stesso, in effetti, in Cristo Gesù, sua Parola a noi rivolta in Spirito d’amore, a insegnare alla Chiesa la via maestra per incontrare l’uomo, ogni uomo, tutto l’uomo: «Con questa rivelazione, infatti, Dio invisibile dall’abbondanza del suo amore parla agli uomini come amici e s’intrattiene con essi, per invitarli e accoglierli in comunione con sé». Ed è precisamente questa sincera passione pastorale, che sgorga dal cuore, illumina la mente e ispira l’azione, che spinge a un ricentramento della vita di fede e della missione della Chiesa. Ecco una seconda qualità. Anche in ciò sono la lezione complessiva del Concilio e il sapiente orientamento del ministero di Benedetto XVI a fare da guida. Lo possiamo dire in tanti modi e descrivere da tanti punti di vista. Con immagine efficace, il cardinal Bagnasco parla di mettere la propria vita – sia essa quella personale sia essa quella della comunità ecclesiale – «in asse» con Cristo e, per lui, con Dio: nell’essere, nel pensare, nel volere, nell’agire. Si tratta, dunque, di riguardare al centro, anzi di tornare al centro, di collocarsi in esso e di guardare a sé, agli altri, al mondo, alla storia «dal» centro. Primato di Dio, in altre parole, ma del Dio con l’uomo e per l’uomo che Gesù rivela e ci comunica nel dono sovrabbondante e libero del suo Spirito. Con la Parola e con l’Eucaristia. Per farci altri sé, figli nel Figlio, e cioè suo Corpo, visibilità e testimonianza sua, già nel chiaro-scuro di ciò che è penultimo, attraverso le opere e i giorni dell’uomo.
Ma c’è un altro tratto ancora che, a ben vedere, logicamente e con armonia discende dalle due qualità sinora addotte: il discernimento collegiale e sapienziale. (...) Sono parole pesanti e impegnative. Perché discernimento chiama all’attitudine prima cui i cristiani sono chiamati nello stare, da discepoli del Cristo, dentro il proprio tempo. Esso significa, infatti, illuminare della luce della fede le situazioni, i problemi, le opportunità e, insieme, cogliere, con gli occhi della fede, i segni dei tempi e gli impulsi dello Spirito. Per vivere e agire, così, con pertinenza evangelica e con responsabilità umana. Dicendo, sempre, «sì, sì, no, no», senza compromessi e senza timori, bensì con libertà, parresìa, amore, forza e lungimiranza. Il ricentramento in Dio, per Cristo, nell’esistenza personale e comunitaria del cristiano, ha in effetti l’intrinseca finalità di servire l’uomo e la società nel loro autentico bene. In un tempo, poi, di acuta e pervasiva transizione com’è il presente, è evidente che l’imperativo del discernimento come mai da vicino e risolutamente c’interpella. (...) Il discernimento, per essere autenticamente evangelico, ha da esercitarsi collegialmente e ha da essere intriso di quella Sapienza che è dono dello Spirito. Con ciò si richiama, per renderlo effettivamente operante, quel principio di comunione che qualifica a tutti i livelli l’ecclesiologia del Popolo di Dio sancita dal Vaticano II. Essa, in primo luogo, chiama alla collegialità affettiva ed effettiva dei vescovi in comunione con il Papa e, in particolare, secondo la forma che le è specifica, all’esercizio di vita ecclesiale da essi perseguito a corpo in un luogo e in uno strumento prezioso come la Conferenza episcopale. Ma chiama pure, in ognuna delle Chiese locali, all’intensificazione di una ordinata metodologia di partecipazione e corresponsabilità di tutte le componenti del Popolo di Dio. La pratica collegiale (e comunitaria) del discernimento, in verità, è compito impegnativo che non s’improvvisa. Perché chiede – come auspica Giovanni Paolo II nella Novo millennio ineunte – una formazione e, direi, una spiritualità specificamente comunitaria, capace di mettere in rapporto ed equilibrio l’ascolto della voce di Dio – mediata dalla sua Parola, scritta e trasmessa – nella coscienza personale, con l’ascolto di quanto lo Spirito dice oggi alla Chiesa nella risonanza molteplice e reciprocamente condivisa delle voci che risuonano nel concerto del Popolo di Dio.
Si tratta, in altre parole, d’intercettare insieme – guidati dalla luce della Parola e sotto la guida dei pastori – la lunghezza d’onda lungo la quale lo Spirito di Cristo oggi si fa presente alla Chiesa e, per essa, al mondo, in cui lo stesso Spirito, in un modo che il più delle volte a Dio solo è noto, è all’opera e incalza le coscienze. Il dono di questa Sapienza – lo sappiamo, lo insegna per tutti san Tommaso d’Aquino – risponde alla virtù della carità: si fa cioè presente là dove due o più sono riuniti nel nome di Cristo, in quella sua volontà prima e decisiva che è la carità fraterna e verso tutti. Un’ultima qualifica mi piace sottolineare: lo slancio, lo sguardo in avanti, l’entusiasmo. L’accento non è mai nostalgico, reattivo, pessimistico. È, piuttosto, con freschezza e vivacità, l’accento che sprigiona il suo fascino dal lieto e buon annuncio di Gesù. È, letteralmente, «Vangelo». Il che non significa non dire pane al pane e vino al vino, ma farlo in modo che risulti evidente e percepibile, per quanto è in nostro potere, che tutto e solo e sempre scaturisce dall’amore sincero per l’uomo e per il mondo in cui egli vive e di cui è parte. Nella cristallina consapevolezza che questo amore è il segno distintivo, inconfondibile della presenza viva di Dio alla sua creazione e nella storia dell’umanità. Distintivo di Cristo e, per ciò stesso, distintivo della sua Chiesa.
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