giovedì 22 marzo 2012
​La scomparsa a 92 anni della «voce» romagnola che cominciò a scrivere in dialetto in un lager tedesco  Fu autore poliedrico, però sempre legato alla sua terra.
COMMENTA E CONDIVIDI
Sarà Santarcangelo a tributare l’ultimo saluto a Tonino Guerra. Nella città natale il poeta si era ritrasferito di recente da Pennabilli, nella Valmarecchia, dove abitava da decenni. La camera ardente sarà allestita nella sala del Consiglio comunale di Santarcangelo (che ha proclamato lutto cittadino) domani a partire dalle 9. Sabato intorno alle 10 è prevista in piazza Ganganelli, di fronte alle finestre di casa Guerra, l’orazione funebre che dovrebbe tenere il senatore Sergio Zavoli. Poi il feretro raggiungerà Pennabilli, dove alle 15.30 si reciterà una preghiera di saluto. La moglie Lora e il figlio Andrea (musicista e noto compositore di colonne sonore per cinema e tv) stanno ancora definendo lo svolgimento delle commemorazioni funebri. (P.Guid.)Il destino di un autore polie­drico, anche narratore e sceneggiatore, è stato quello di essere apprezzato soprattutto per la sua poesia, e da un pub­blico molto più vasto di quello che di solito tocca a un poeta in Italia. Tonino Guerra si è spento pochi giorni dopo il suo 92° com­pleanno, festeggiato appena il 16 marzo. La poesia era per Guerra il legame indissolubile con la ter­ra di Romagna e con la propria infanzia a Santarcangelo, pove­ra, forse troppo negli affetti fa­miliari, eppure sempre nel cuo­re radice profonda, sostegno, fonte d’ispirazione mai inaridi­ta. È da qui che nasce la scelta di scrivere in dialetto, una varian­te del romagnolo particolar­mente 'stretta', arcaica, ma che nelle sue mani si è rivelata dut­tile, adattabile alle forme più va­riegate: dal frammento in versi brevi al poemetto narrativo dal­la metrica più articolata. Il lin­guaggio dell’infanzia diventa la sofisticata lingua della poesia, acquistando assoluta dignità let­teraria. Con un fondamento nar­rativo originario che rimane una costante: lo stesso Guerra, in u­na breve autobiografia compar­sa in un volume del 1985 ( Toni­no Guerra, Maggioli), racconta di aver iniziato a scrivere versi dialettali durante la prigionia in Germania, dove era stato inter­nato nel campo di Troisdorf dal 1943 al 1945. Qui erano tornati con forza i ricordi di un passato ancora molto vivo, perché il gio­vane Guerra non aveva mai la­sciato la sua casa prima di allo­ra, e inoltre era con altri prigio­nieri romagnoli che come lui sentivano il bisogno di ritrovare la loro identità per sopravvive­re. Uno dei primi ricordi è il motivo per cui era stato catturato dai nazisti: era tornato nella casa di Santarcan­gelo per portare da mangiare al gatto di famiglia, rimasto là da solo mentre i Guerra erano fug­giti. La sintonia con l’atmosfera letteraria del neorealismo è qua­si una coincidenza inevitabile: il primo libro esce nel 1946, pro­prio quando comincia ad affer­marsi la nuova narrativa del se­condo dopoguerra, con la pre­fazione prestigiosa di Carlo Bo e con un titolo, I scarabòcc («Gli scarabocchi») che ne rivela la na­tura frammentaria, di schizzo improvvisato che con tratti bre­vi racconta storie drammatiche. Tra le molte «Italie dimenticate» del tempo conquista così un po­sto di rilievo la sua Romagna fat­ta di «povera gente» che fre­quenta modeste osterie e amo­reggia negli androni delle gran­di case coloniche, di paesaggi semplici, in cui basta però un po’ di pioggia perché tutto luccichi e risplenda come un miracolo. Il libro ottiene i giudizi lusinghie­ri di Pasolini e Contini, che in­durrà studiosi del valore di Tul­lio De Mauro e Claudio Marabi­ni a occuparsi della poesia suc­cessiva di Guerra. Che continua a scrivere e pubblicare da edito­ri importanti, ma in prevalenza narrativa; poi dal 1953 si trasfe­risce a Roma, dove rimane a lun­go, vivendo una fortunatissima carriera di sce­neggiatore cinematografico. Ma senza mai abbandonare la poesia, come u­na via parallela, un filo lumino­so che collega alle origini. Un po’ come per il Pascoli che pas­sa da Myricae ai Canti di Castel­vecchio, uno dei libri successivi di Guerra, I bu («I buoi», 1972), consolida questa scrittura insieme realistica e af­fettiva, a tratti malinconica e o­nirica, riunendo le raccolte se­guite alla prima: La sciupteda («La schioppettata», 1950) e Lu­nario (1954). Si riafferma il ri­tratto dell’amata Romagna, un mondo di povertà dignitosa, che di rado assume vagamente i trat­ti di un esercito contadino in marcia contro un nemico iniquo (come in Sa vinzèm néun , «Se vinciamo noi»). Ma campeggia­no le ragioni dell’affetto, come nello splendido omaggio alla madre Penelope, quasi analfa­beta e capace di privarsi di tutto per il figlio, nella poesia I sacri­feizi («I sacrifici»). La raccolta Il miele del 1981 segna il passag­gio a una scrittura più distesa, fatta di versi e testi più ampi, che continua nei numerosi libri suc­cessivi, quasi tutti pubblicati da Maggioli di Rimini, nei quali do­mina la dimensione narrativa, che così viene del tutto assorbi­ta nella poesia, mentre la pro­duzione in prosa tende a cessa­re. Intanto, il cinema sembra al­lontanarsi da Guerra, che a fine anni Ottanta torna in Romagna con la seconda moglie, la russa Eleonora Kreindlina, Lora, che gli è rimasta accanto fino alla fi­ne, dapprima a Pennabilli e ne­gli ultimi tempi a Santarcange­lo. Scegliendo di nuovo la linea arcaica delle origini amate, del­l’infanzia ritrovata.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: