sabato 4 giugno 2022
L'impegno delle diocesi, Libera, le cooperative: in un libro le storie dell’impegno portato avanti ripulendo la religiosità popolare, formando le coscienze e riutilizzando i beni confiscati
Folla alla beatificazione di padre Pino Puglisi, il parroco di Brancaccio assassinato dalla mafia nel 1993

Folla alla beatificazione di padre Pino Puglisi, il parroco di Brancaccio assassinato dalla mafia nel 1993 - Ansa / Michele Naccari

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Pubblichiamo ampi stralci del capitolo "Chiesa in uscita. Anche contro le mafie" tratto dal libro Rinascere dalla mafia (San Paolo, pagine 280, euro 18,00) scritto da Toni Mira, già inviato di Avvenire. Il volume si concentra, come recita il sottotitolo su "La reazione di istituzioni, società civile e Chiesa dopo le stragi del 1992".

Il 15 settembre 1993, la mafia colpisce don Pino Puglisi. A spiegare il motivo sono gli stessi boss di "cosa nostra". Leoluca Bagarella, cognato di Totò Riina, approvò la scelta dei fratelli Graviano di eliminare il sacerdote perché «Iddu si tirava i picciotti cu iddu, quindi faceva ’stu dannu, predica tutta ’arnata (Lui attirava i giovani, faceva danno, predicava tutta la giornata, ndr)». Lo stesso Riina, in una intercettazione in carcere del settembre 2013 dice che padre Puglisi «voleva comandare il quartiere. Ma tu fatti u parrinu, pensa alle messe, lasciali stare... il territorio... il campo... la Chiesa... Cose da non crederci. Tutte cose voleva fare iddu nel territorio».

Già, don Pino parlava e faceva cose concrete, dal "ripulire" le feste patronali alla battaglia per una nuova scuola nel quartiere. Vangelo e fatti concreti. Lo sottolineò il cardinale Salvatore Pappalardo, arcivescovo di Palermo al funerale del parroco di Brancaccio: «Occorre lavare nel sangue di padre Puglisi la propria coscienza. Non si può combattere e sradicare la mafia se non è il popolo tutto che reagisce alla sua presenza e prepotenza. È la comunità civile e ancor più la comunità cristiana che deve reagire coralmente non solo con significative manifestazioni, ma assumendo atteggiamenti di pubblica e aperta ripulsa, di isolamento, di denuncia, e di liberazione nei riguardi di ogni forma di mafia a tutti i livelli».

Pappalardo era, quel 9 maggio 1993, ad Agrigento, e come si vede in alcune foto partecipò anche all’incontro coi genitori di Livatino, assieme all’arcivescovo di Agrigento, Carmelo Ferraro. Pappalardo e almeno una parte della Chiesa siciliana, ma anche in Campania e Calabria, avevano intrapreso un cammino, rafforzato dalle parole di Giovanni Paolo II. Un cammino che anticipa la centralità dell’insegnamento di papa Francesco. Fin da quel 20 marzo 2014, quando papa Bergoglio volle incontrare a Roma i familiari delle vittime innocenti di mafia, in occasione della Giornata della memoria e dell’impegno promossa da Libera. (...) Ma il papa va oltre e il 21 giugno 2014, proprio in Calabria, nella Piana di Sibari, pronuncia parole definitive: «La ’ndrangheta è questo: adorazione del male e disprezzo del bene comune. Questo male va combattuto, va allontanato! Bisogna dirgli di no! Coloro che nella loro vita seguono questa strada di male, come sono i mafiosi, non sono in comunione con Dio: sono scomunicati!».

Un pronunciamento che lascia il segno e che, soprattutto, rafforza l’impegno di chi nella Chiesa non ha mai taciuto. Si moltiplicano così le storie di antimafia concreta, la riappropriazione delle manifestazioni della religiosità popolare, feste, processioni, che le mafie hanno usurpato favorite da silenzi e timidezze. Ma anche segni di riconquista dei territori, attraverso belle ed efficaci iniziative sui beni confiscati.

Con "Avvenire" l’ho raccontato più volte, scendendo in queste terre strappate alle cosche, liberate e rese protagoniste di percorsi di cambiamento. Non più isolate. Più del 20% dei beni confiscati alle mafie e diventati esperienze di riutilizzo a fini sociali sono riconducibili all’impegno della Chiesa italiana: diocesi, parrocchie, Caritas, gruppi scout, associazioni di volontariato. Storie di una Chiesa davvero presente sul territorio raccolte nel dossier "Libera il bene, dal bene confiscato al bene comune".

Un’attenzione crescente confermata dal percorso che porta lo stesso nome del dossier ed è promosso sempre da Libera in collaborazione con la Cei. Un’iniziativa che ha visto coinvolte ben 40 diocesi, con incontri di formazione, animazione sociali, educazione alla legalità e alla cittadinanza responsabile, di memoria delle vittime innocenti delle mafie, di riutilizzo sociale dei beni confiscati, di campi di volontariato e scuole di formazione all’imprenditorialità giovanile, in partenariato col progetto Policoro della Cei.

La presenza del Policoro non è una novità, visto che il progetto per l’imprenditorialità giovanile al Sud ha contribuito alla nascita e ancora segue ben sei cooperative sociali che coltivano terreni confiscati ai clan in Calabria, Puglia e Sicilia. La prima è stata la Valle del Marro, nata nel 2004 su iniziativa della diocesi calabrese di Oppido-Palmi e dell’associazione Libera e che coltiva terreni strappati alla ’ndrangheta.

Una storia analoga è quella della cooperativa “Rosario Livatino”, che coltiva terreni su cui stava indagando il giovane magistrato. Nasce nel giugno 2012 dalla collaborazione tra diocesi di Agrigento, Libera, progetto Policoro, Agesci, e il sostegno della prefettura. La sede si trova nel comune di Naro, in un casale in contrada Robadao che ospita anche la base scout intitolata al giudice Antonino Saetta e al figlio Stefano, uccisi dalla mafia due anni prima di Livatino.

In provincia di Crotone, Libera e il progetto Policoro della diocesi di Crotone-Santa Severina hanno dato vita alla cooperativa 'Terre Joniche Libera Terra' sui terreni confiscati alla ’ndrangheta di Cirò e di Isola di Capo Rizzuto. Nel 2014 nasce la cooperativa 'Rita Atria', che coltiva in particolare le olive 'La nocellara del Belice', sui terreni confiscati a Castelvetrano (patria del boss Matteo Messina Denaro ancora latitante), Partanna e Salemi, con il partenariato della diocesi di Mazara del Vallo. Altre olive di qualità 'La bella di Cerignola', oltre a pomodori, olio e marmellate, vengono prodotte dalle cooperative Pietra di Scarto e Altereco, nate col sostegno del Policoro della diocesi di Cerignola- Ascoli Satriano, che hanno realizzato anche il laboratorio della legalità, intitolato a Francesco Marcone, vittima innocente delle mafie.

Sono davvero tante le storie di Chiesa protagonista dell’antimafia sociale. Come in Calabria l’esperienza di Progetto Sud, fondata nel 1976 a Lamezia Terme da un sacerdote bresciano, don Giacomo Panizza. Comunità di disabili, ex tossicodipendenti, volontari, obiettori di coscienza, fragilità che sfidano con l’impegno sociale il potere violento della ’ndrangheta. Anche utilizzando un bene confiscato al clan Torcasio. Il 'loro' palazzo che ora ospita disabili gravi in un 'dopo di noi' intitolato 'Pensieri e parole' e giovani immigrati nel centro 'Luna rossa'. Storie esemplari che però finiscono più volte nel mirino di attentati mafiosi, come le cooperative di cui abbiamo parlato. È la Chiesa in uscita, quella di Papa Francesco, anche nella lotta alle mafie, cresciuta e sempre più visibile in questi trenta anni.

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