sabato 24 aprile 2010
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A Roma, sponda giallorossa, a Damiano Tommasi lo chiamano ancora affettuosamente “Anima candida”. Ma Damiano non ci tiene all’etichetta del santino del pallone. Con la naturalezza con cui per dieci anni alla Roma serviva lanci per Totti, si è messo sempre a disposizione di chi ha avuto bisogno di una mano: facendo il servizio civile, «perché è meglio che imbracciare un fucile», raccogliendo firme nello spogliatoio per fermare la guerra nei Balcani e rinunciando allo stipendio milionario, per quello sindacale (1.500 euro) pur di continuare ad indossare la maglia giallorossa.Ora che il sipario del grande calcio per lui si è chiuso, con la stessa passione che ci metteva in Serie A per difendere i colori dei “lupi” romanisti, alla domenica lotta per i “falchi” del Sant’Anna d’Alfaedo, piccolo club di Seconda categoria veneta, fondato nel 1983, l’anno del secondo scudetto giallorosso. Con lui, “Tommasi II”, scendono in campo anche i fratelli: Tommasi I, Alfonso che va per i quarant’anni e Tomnmasi III, Samuele, il più piccolo, 24 anni. Una stagione difficile, «a due giornate dalla fine siamo in piena zona play-out», dice sorridendo Damiano che con il Sant’Anna ha ritrovato il gusto del calcio come puro gioco. «La dimensione giusta e l’aria pulita che vorrei si respirasse ovunque». E invece le domeniche del pallone italico sono scandite dalle solite violenze, in campo e sugli spalti, con polemiche infinite, a cominciare da quella del “Balotelli furioso” che continua a tener banco, dopo il gesto della maglia gettata a terra alla fine di Inter-Barcellona.«La gente se la prende con i giocatori perché la prima cosa che pensa è: “Ma quanti soldi guadagnano questi per fare una cosa che sanno fare tutti?”. Però non si domandano: come mai Mario Balotelli è in campo e gli altri 90 mila sugli spalti a guardarlo giocare? Ragazzi di talento come Balotelli se sono arrivati dove stanno, è perché avranno qualcosa al di sopra della media o no? Basterebbe riflettere su questi semplici interrogativi che tanti pregiudizi e cattivi pensieri sparirebbero. Ne gioverebbe la crescita di una cultura sportiva che da noi è sempre più scarsa».Colpa di un Paese costantemente nel pallone. «Ai calciatori di oggi si chiedono cose che da cittadini non pretendiamo neppure dalla classe politica. Sono giorni che ci si arrovella sul gesto di Totti alla fine del derby, quando persino i tifosi laziali l’hanno capito e tollerato, perché fa parte del folklore e della tradizione della stracittadina della Capitale che io conosco bene per averla vissuta. La sensazione è che i media debbano confezionare in tv il loro servizio ad effetto e la stampa spesso ha bisogno di riempire le pagine e di pilotare un certo tipo di informazione, correndo alla fine il rischio di disinformare». Resta il fatto che i calciatori sono una categoria privilegiata e probabilmente “strapagata”.«Sono strapagati? Ma andiamo a vedere quali sono gli introiti reali che hanno le società e i benefici che traggono dal disporre dell’immagine commerciale di un Balotelli, un Totti o di un Messi. Ai club, da tanto viene chiesto di non spendere di più di quanto incassano, ma se questo si risolve in una minaccia, piuttosto che in una regolamentazione seria ed efficace, in futuro continueremo sempre a vedere società che falliscono e giocatori che resteranno inevitabilmente disoccupati». Ecco che esce l’anima del sindacalista che pensa al bene e al futuro della categoria, con tanto di promozione di un Master “Ancora in carriera”, con lezioni che si terranno a Coverciano. «È un progetto che mira a colmare quei vuoti culturali che molti calciatori professionisti si portano dietro, per non aver completato un ciclo di studi. Il Master servirà a indirizzarli e a facilitare il loro inserimento nel mondo del lavoro, una volta che smetteranno di giocare».Idee culturalmente elevate di chi ha utilizzato il calcio come strumento di conoscenza, per sperimentare esperienze complete. Prima in Spagna, poi una breve parentesi in Inghilterra (Queens Park Rangers) e infine quella pionieristica del primo giocatore italiano in Cina. «In Inghilterra sappiamo tutti come vivono il calcio, in maniera civilissima. Ma anche in Spagna non esiste il tipo di pressione asfissiante che c’è in Italia. Un esempio per tutti? Con il Levante andammo a vincere in casa del Real Madrid e i loro tifosi cominciarono a contestare. Io ero con mio padre che era venuto a trovarmi e stavamo nel recinto dell’antistadio: parlavamo tranquillamente senza che nessuno ci importunasse… In Cina il calcio è un fenomeno in crescita, c’è un problema di comunicazione, ma sono molti i talenti che stanno emergendo e che cominciano ad arrivare in Europa. Il mio ex compagno di squadra (il Tianjin Teda), Hao Junmin, con lo Schalke 04 sta lottando per vincere la Bundesliga». Un calcio sempre più globalizzato e dalle frontiere aperte che però poi deve fare i conti con il “razzismo” da ultimo stadio. «I “buu-buu” razzisti vanno condannati e non si dovrebbero mai sentire in uno stadio di un Paese che si reputa civile.Ma è anche vero che nella nostra società c’è molta più discriminazione di quella che si può rintracciare in una Curva. Penso a quei mestieri che un italiano ormai si rifiuta di fare. Così uno straniero, un extracomunitario, magari anche laureato, che arriva da noi, non può che esercitare quei lavori più umili e meno qualificati». Tornando al nostro gioco, mentre il Sant’Anna dall’alto del suo campo di Fosse (900 metri d’altitudine) lotta per salvarsi, qui in pianura, su due campi accecati dai riflettori mediatici, Roma e Inter, tra un sorpasso e l’altro, si giocano il titolo di campione d’Italia. Sfida ancora aperta tra lo “specialissimo” Josè Mourinho e il “normalissimo” Claudio Ranieri.«Mourinho è un ottimo comunicatore e non è un caso che professionalmente nasca come interprete al Barcellona in cui doveva tradurre dallo spagnolo all’inglese al tecnico Bobby Robson. Per i media è una “manna”, perché il personaggio si vende bene, è uno spot che funziona. Ranieri nella sua normalità ha fatto cose speciali, con una squadra che sulla carta sembrava non poter tenere testa all’Inter e invece… Adesso se la giocano alla pari, ed è chiaro che i miei occhi sono rivolti alla Roma». Tra Totti e De Rossi, nel clan giallorosso Tommasi segnala un piccolo eroe esemplare da tenere in considerazione: «Matteo Brighi, mi sembra una persona con delle qualità importanti che vanno oltre l’aspetto meramente calcistico». Ma un pensiero va anche al suo ex capitano e all’ipotetica partecipazione alla “missione” Mondiale in Sudafrica: «Totti penso che ci stia pensando, ora però bisogna vedere quale sarà la decisione di Lippi». Il suo AltroMondiale, Tommasi lo vivrà inaugurando a Verona la versione italiana del tour solidale del calcio di strada, “To South Africa by Matatu”. E il futuro? «Intanto penso a giocare e a divertirmi, poi nella mia “seconda vita” potrei fare tante cose, compreso andare a lavorare nella cava di marmo con mio padre e mio fratello. Continuerò a dare il mio contributo all’Assocalciatori e vorrei cominciare allenando i più piccoli, i bambini dell’età dei miei 4 figli. Il sogno? Fare il giornalista, cercando di raccontare però, un calcio e uno sport diverso e forse migliore, da quello che ci fanno leggere e vedere adesso».
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