mercoledì 2 novembre 2022
Nella sua nuova raccolta lo scrittore e cardinale portoghese utilizza la forma poetica giapponese: tre brevi versi che - consigliava Kerouac - raccontano molto, semplicemente e in qualsiasi lingua
Lo scrittore José Tolentino Mendonça, cardinale e prefetto del dicastero vaticano per la Cultura e l’educazione

Lo scrittore José Tolentino Mendonça, cardinale e prefetto del dicastero vaticano per la Cultura e l’educazione - archivio

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L’haiku è un testo poetico di origine giapponese costituito da tre versi, solitamente non rimati, con un assetto metrico fisso (cinque, sette e cinque more; il termine “ mora” indica la quantità sillabica). Dal punto di vista concettuale ed emozionale, esso «si presenta come un’istantanea che cattura il flagrante e l’implicito, la meraviglia e la tensione inerenti alla vita ». Lo scrive José Tolentino Mendonça – cardinale, teologo, poeta e prefetto del dicastero vaticano per la Cultura e l’educazione – nella premessa alla sua nuova silloge, Il papavero e il monaco (prefazione di Lina Bolzoni, traduzione di Teresa Bartolomei; Edizioni Qiqajon, pagine 184, euro 15,00), composta interamente da haiku “occidentali”, ovvero nella veste suggerita in Book of Haikus da Jack Kerouac. Il quale consiglia di utilizzare tale facies strofica a patto che «racconti molto, ma semplicemente, in tre versi corti, e lo faccia in qualsiasi lingua». Come accade nei testi di Philippe Jaccottet, Tomas Tranströmer, Andrea Zanzotto e di altri scrittori non orientali cimentatisi nel genere, il frutto poetico più immediato è the real thing, la cosa reale, la concretezza di uno sguardo che non oggettivizza con sterile impermeabilità, ma tende bachtinianamente a una “descrizione partecipe”. D’altra parte già nella poesia waka-tanka e nel renga, i più diretti progenitori dell’haiku, si notava la tensione al lento modificarsi delle stagioni che, però, implicava una suggestione del paziente osservatore mimetizzato dentro l’impersonalità di versi netti, concentrati. Matsuo Bashô (1644-1694), la massima autorità nel campo, fu probabilmente il primo a conferire in quelle chiuse gabbie liriche un tono di assorta contemplazione, quasi traslando il pensiero zen nelle maglie popolaresche di brevi bozzetti di campagna. «La prima neve! / appena da piegare / le foglie dell’asfodelo» (da Poesie, traduzione di Giuseppe Rigacci, Sansoni 1992). Ma è davvero così marcata la linea di discrimine tracciata da Montale – nell’introduzione alle Liriche cinesi del ’52 – tra le due grandi tradizioni letterarie, quella del Sol Levante e il Western Canon? Tolentino Mendonça appronta la sua scrittura sulla profonda conoscenza dell’evoluzione diacronica dell’haiku nella cultura nipponica, sulla base delle sopracitate indicazioni kerouachiane ma anche su stimolo del Centro Nacional de Cultura di Lisbona, «grazie al cui invito generoso – scrive l’autore – nel novembre-dicembre 2010 ebbi la possibilità di prendere parte a un viaggio in Giappone. [...] Il mio ruolo era quello di scrittore invitato, con l’impegno di produrre qualcosa a partire da quell’esperienza». Ecco come nascono le poesie, suddivise in sei solide sezioni ( Scuola di silenzio, Vita monastica, Guida per perdersi nei monti, Mattutino nella prima città, Mattutino nella seconda città, Libro dei pellegrinaggi), che testimoniano la presenza di un percorso esistenziale compatto e ad alta trafilatu- speculativa. «La forma poetica scelta da José Tolentino Mendonça – sottolinea Bolzoni nella densa prefazione – , la sua disposizione nello spazio della pagina, richiedono da subito a chi guarda e a chi legge un esercizio di adesione e di lontananza. Il viaggio, la navigazione, costituiscono da tempi lontani una delle immagini più forti per rappresentare sia la scrittura di un’opera sia la sua lettura. In entrambi i casi si tratta di realizzare un percorso. Viene da guardare a quei pochi versi disposti in alto, con intorno un grande spazio vuoto, come a una specie di isola, cui si arriva dopo una lunga navigazione. Ma nello stesso tempo capiamo da subito che la navigazione va lasciata alle spalle, che il nostro approdo all’isola dev’essere depurato dai nostri ricordi, che la nostra mente si deve vuotare per essere pronta all’incontro, a quella “scuola del silenzio”, a quella “iniziazione” che ci attende». La metafora del periplo indicata da Bolzoni rimanda a quella navigatio vitae, d’accensione quasi sabiana, che effigia l’innesto di una saggezza compiuta solo dopo un lungo apprendistato. Si pensi a questi apoftegmi che presuppongono il perforante scandaglio di una coscienza mariana, intersoggettiva, sine macula: «Sia tale il tuo silenzio / che neppure il pensiero / può pensarlo»; «Far tara cere per far dire: / paradossale ingiunzione / il silenzio parla di sé stesso»; «Non so / non dico / esiste altrove bene così grande?»; «Oggi le nuvole sembrano / monaci che prendono il tè / in silenzio »; « Molte volte Dio / preferisce entrare in casa nostra / quando non ci siamo ». L’ampiezza tematica della raccolta esce ovviamente dalle sole tonalità di una tastiera aforistica, per guadagnare squarci di intenso lirismo: «Vuoi sapere che cosa prego quando prego? / tronchi secchi, ramoscelli / recinzioni e creta rossa »; «Adorare / è sorprendere Dio / nella più piccola briciola»; «L’estate / insegna la stessa preghiera / al papavero e al monaco »; «Sopra il tamarindo / al crepuscolo / un passero prende congedo ». Dal punto di vista retorico gli accorgimenti stilistici adoprati da Tolentino Mendonça esibiscono alcune consonanze con i ventuno haiku scritti da Pessoa, come avviene in tale bellissima epifora: «C’è una luce / al di sopra delle luci / in cui lo sguardo elude tutte le luci»; oppure nello scarto semantico dal sapore ungarettiano: « Azzurra la luna / si alza sopra i tetti / e la citta con lei». O nel flusso contrastivo di linee orizzontali-verticali: « Fluttua la notte / sul fiume / come chi va a spasso da solo»; « Dai canneti in riposo / improvviso il volo / delle oche selvatiche». O, ancora, nelle vertigini antinomiche: « La luna e il lago / ora così vicini / non arriveranno mai a toccarsi»; « La cavalletta / chiude le ali / in pieno volo». Il papavero e il monaco è un libro che tocca anche il tema dell’elevazione data dalla parola poetica: la cognizione del mondo, persino l’incontro con la trascendenza, passano attraverso la trasfigurazione del linguaggio, strumento screziato, vibratile: «Ora resta soltanto / che tu diventi / la poesia».

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