sabato 24 luglio 2021
La nuotatrice torinese in vasca nella staffetta 4x200, lo sciabolatore “nipote d’arte” a 46 anni e cinque edizioni olimpiche punta alla quinta medaglia. Ma non solo
Laura Rogora, arrampicata sportiva

Laura Rogora, arrampicata sportiva - Ansa

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Paura e divieti, il dubbio che ne valga la pena, il virus sul podio. Tokyo è prima di tutto un incubo ingiusto. Perché ci vuole una vita per arrivarci, e basta un tampone per perderla, ma chiedi a quelli che la scalano cosa sia l’Olimpiade. Una storia d’amore in cui ci si vede solo una volta ogni quattro anni, cinque stavolta. Fedeltà pura. Confronto, contatto, esame crudele. Se sbagli, non puoi riparare subito. Se la accarezzi, diventa una droga. Una volta provata, la rivuoi. Anche in piena pandemia, anche senza pubblico.
Chiedi a Gabriele Rossetti, 26 anni, fiorentino, medaglia d’oro a Rio 2016 nel tiro a volo, specialità skeet: «Non dimenticherò mai quel giorno, l’ultimo piattello colpito, la faccia di mio padre in tribuna, la felicità e l’orgoglio. Ho già vissuto quella sensazione, perciò è un peso in meno che ho. Sono consapevole di poterla rivivere. Nello sport non puoi sempre vincere, ma devi prepararti per questo».

Lui come tanti altri. Si guardano dentro e trovano la forza. Perché sanno che non ci si abitua alle Olimpiadi. Quando arrivano devi esserci. Non importa dove. Non conta come, né quando. Interessa solo perché. Chiedi a Luigi Busà, 33 anni, di Avola, una carriera oscura a combattere dappertutto. Ovunque tranne ai Giochi, perché il karate alle Olimpiadi fino a oggi non c’era. Un rimpianto immenso per lui, uno dei più forti al mondo. La sua occasione è adesso, finalmente: «Una medaglia? Ci penso ogni notte, guardo la luna, le parlo, le chiedo se ce la farò…».

C’è sempre un motivo. E non è mai lo stesso. Partenze e arrivi, colori e storie. Quelli dei cerchi, anelli eterni da afferrare per dondolarsi sul mondo. E dire a tutti: eccomi, sono qui, guardatemi. Ce l’ho fatta un’altra volta. Chiedetelo ad Aldo Montano, 46 anni, 4 medaglie tra cui una d’oro ad Atene 2004, figlio e nipote d’arte. Dal nonno a lui, 85 anni di Giochi in famiglia. Tokyo è la sua quinta volta: «L’Olimpiade è un fuoco che si accende. Ma dopo 30 anni di carriera ho capito che non puoi farlo rivivere a comando. E se non viene, hai perso anni di fatica. Questi sono Giochi particolari, diversi. Ma è un bene che ci siamo. Poteva essere molto peggio. Un anno in più per me cambia tanto, io non riparto, finirò a Tokyo comunque. Dopo una carriera di alti e bassi, un percorso bellissimo».


Rossetti oro a Rio 2016 (skeet): «Nello sport non puoi sempre vincere, ma devi prepararti per questo»

Miracolo, sogno, rinascita, contatto con la fatica. Puoi spremerli i Giochi, tirargli fuori l’anima, offenderli, pensare che non lascino effetti collaterali, congelarli nel ricordo di una sola, episodica, straordinaria impresa. Ma poi ritornano. E la prima volta diventa un’esplosione di voglia, una conquista che fa vacillare. Chiedere per conferma a Giulia Vetrano, torinese, 15 anni appena. Il nuoto è il suo piccolo mondo. Si butterà in vasca nella staffetta 4x200. Insieme a Federica Pellegrini, la Divina, che di Olimpiadi ne ha nuotate cinque. «Anche per questo mi tremano le gambe. Tuffarmi prima di lei, nella stessa formazione, incredibile e meraviglioso…», spiega. Giulia i Giochi non li aveva visti mai, nemmeno in tv. Le hanno fatto il passaporto d’urgenza. Non l’aveva, non pensava che le servisse. Anche per lei, bambina della generazione liquida, l’Olimpiade è un traguardo, il documento che cambia la vita.

Gli esordienti poi fanno sempre un po’ di tenerezza. Li guardano dal basso i Giochi, sono montagne che mettono paura. Ma loro sono lì, con il pass al collo sotto la mascherina, pronti a scalarli. Lo sa bene Laura Rogora, romana, 20 anni, scricciolo 150 cm e 40 kg. Il suo gioco è l’arrampicata sportiva, una novità assoluta per le Olimpiadi. Il papà di Laura è professore di matematica alla Sapienza. Numeri e risalite con la forza delle braccia, binomio strano, ma mica tanto: «Attaccare una parete - spiega lei - è come affrontare un’espressione. Non c’è quasi mai una sola via d’uscita possibile: devi tirar fuori qualcosa di te e scoprirla».
Questa è l’Olimpiade, storie e trionfi. Ma anche emulazione, sogno da bambino.

Rivolgersi, per conferma, a Marcell Jackobs, 26 anni, nato in Texas, «ma italiano in ogni cellula del corpo - come dice lui - tanto che con l’inglese sono in difficoltà». Poliziotto quando non corre, l’uomo più veloce d’Italia quando è in pista. A Tokyo arriva con un personale di 9’’95 sui 100 metri, tempo da finale. Forse, perché la crema dello sprint di solito ai Giochi per gli europei è un gusto vietato. È bello crederci però: «È dalla prima volta che ho messo piede in pista, a 9 anni, che ho in mente l’Olimpiade. Avevo attaccato al muro della cameretta la pagina di giornale con la famosa pubblicità di Carl Lewis in pista con i tacchi a spillo. Ma il mio idolo da ragazzino era Andrew Howe: mulatto e mezzo americano come me, mi rivedevo troppo in lui. A Tokyo vado per vincere una medaglia: non c’è Bolt, non c’è Coleman, non c’è un favorito numero uno. No, il mio sogno non lo metto da parte proprio ora».

Sono fatti così. Mai arrendersi. Anche se qualcuno deve farlo per forza. Il rovescio della medaglia allora diventa un piccolo dramma, l’assenza forzata un rimpianto difficile da accettare. Ne sa qualcosa Larissa Iapichino, 19 anni appena compiuti, figlia di Fiona May, la ex regina: il salto in lungo nel dna di famiglia, la delusione nel destino. Aspetti, sogni, ti prepari, realizzi il record del mondo Under 20. Poi l’infortunio, carogna, a 22 giorni dai Giochi. Tutto in frantumi, come un bicchiere di cristallo che cade da un grattacielo: «Sono triste e amareggiata, però non mi butto giù. Cerco sempre di prendere il buono da ogni cosa, la vivo come un’esperienza che alla mia età mi farà crescere. L’Olimpiade di Parigi in fondo è lontana solo tre anni: una motivazione in più per continuare a lavorare e migliorarmi». Eccole le parole giuste, un’altra lezione di vita.

Storie, persone, umanità. Qualcosa che dura un attimo lunghissimo. Solo un’Olimpiade regala tanto. Riempie, sazia fino alla prossima. Un viaggio senza illusioni, non vincono sempre i buoni e spesso non perdono i cattivi. Ma c’è tanta vita dentro, c’è un senso, una speranza più alta di un podio, una bandiera con mille colori e zero confini.

Chi non ci crede, chieda a Adrian Ignacio Carambula Raurich, un nome più lungo di un’autostrada, uruguaiano per nascita, azzurro per bandiera, italiano grazie alla nonna di Torino, aviere capo a Ostia quando non schiaccia palloni sulla sabbia. Iniziò giocando a calcio a Montevideo, poi suo padre lo porta a Miami e apre un’impresa di pulizie. Va in spiaggia Adrian, impara il beach volley, diventa bravo, anzi di più. A Tokyo in campo farà coppia con Enrico Rossi: «Chi è il più bravo? Siamo due numeri uno – dice – ma il segreto è giocare sempre come se fossimo numeri due».

Infien la prima medaglia d'oro italiana, . Nato il 3 novembre 2000 a Mesagne, cittadina in provincia di Brindisi della quale è originario anche il primo olimpionico del taekwondo, Carlo Molfetta, Vito Dell'Aquila ha cominciato a praticare questo sport a otto anni grazie al padre, appassionato di arti marziali. Nella palestra New Marzial di Mesagne ha trascorso interi pomeriggi agli ordini del maestro Roberto Baglivo, come aveva già fatto proprio Molfetta. Appassionato di musica e fotografia, in futuro sogna di diventare giornalista anche se questo oro cambierà per sempre il suo destino.

Questa è l’Olimpiade: in nome suo si stimola il confronto e si nasce, difficilmente si muore. Perché ti aspetta l’Olimpiade, ti lascia davanti il meglio e il peggio del mondo, ti mette accanto i più bravi, ti obbliga a stare diritto, a dosare il fiato. Corri, salta, combatti.
Cento corse non fanno una finale olimpica. Non c’è un’altra volta, la prossima passa tra quattro anni (tre questa volta), se passa. E non tutti hanno la possibilità di giocare.


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