venerdì 30 aprile 2010
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Cinquantasei ore da malato terminale. Cinquantasei ore da ostaggio. Con Le ultime 56 ore, diretto da Claudio Fragasso, regista di film come Palermo - Milano solo andata, ritorna nelle nostre sale (200 copie dal 7 maggio) il film di genere e di denuncia. Al centro della storia scritta da Rossella Drudi (Teste rasate, Concorso di colpa) le pallottole di uranio impoverito che, utilizzate nella guerra in Kosovo, hanno portato malformazioni e cancro nei soldati e nei civili. «L’idea del film è nata dieci anni fa – spiega la sceneggiatrice – proprio quando all’improvviso una persona a me cara morì di leucemia fulminante. Poi per caso mi sono imbattuta in un forum di associazioni di familiari delle vittime della cosiddetta “sindrome dei Balcani”, rinconducibile a casi di leucemia provocati dall’uranio impoverito, materiale radioattivo. Da lì è nato il film che poi è diventato una storia d’amore e anche un thriller». Sono infatti due le storie raccontate che si intrecciano: nella prima il colonnello Moresco (Gianmarco Tognazzi che si dice «onorato di fare film così, capaci di mescolare fantasia e denuncia»), reduce dalla missione in Kosovo, dopo la morte dell’amico e collega, decide di trovare una via «forte» per attirare l’attenzione delle autorità sulla sospensione dell’uso di pallottole di uranio impoverito. Coinvolgendo 12 soldati che poi diventano 13 nell’Operazione 12 Apostoli Moresco prende in ostaggio l’ospedale dove è morto l’amico. Il suo avversario è Paolo (Luca Lionello), vicequestore aggiunto, disposto a tutto pur di salvare la moglie (dalla quale si era da poco ricongiunto) e la figlia adolescente, entrambe ostaggi. «Il mio è un film di genere, non solo sull’uranio impoverito – tende a specificare il regista – omaggio ai film polizieschi italiani degli anni 70 e 80 che coniuga azione, amore e dolore». «Il cinema – sottolinea la Drudi – è solo un mezzo per dare voce alla realtà, attraverso la fantasia narrativa». Sarà ma Le ultime 56 ore, pur avendo il merito di denunciare una realtà poco conosciuta (i nostri militari ufficialmente non hanno mai utilizzato questo tipo di armi, ma hanno respirato in Kosovo il fumo dei proiettili utilizzati da soldati di altri Paesi) non riesce fino in fondo a raccontare con pathos il dolore della perdita e il dolore di chi è disposto, anche mettendo a repentaglio la vita di civili e di malati, a tutto per la verità. Scene d’azione si mescolano a scelte narrative discutibili (l’avviso dell’ospedale di una sospetta leucemia via mail, l’eutanasia per il soldato morente provocata dalla moglie-dottore, come un’azione senza conseguenze, etc.) che unite a dialoghi poco curati trasformano Le ultime 56 ore in un film televisivo, dove l’emozione viene subito consumata e poco assaporata.
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