venerdì 28 luglio 2023
Non servono più, scalzati dai trafori: però insegnano ancora che ogni confine è passaggio e non barriera. Il memoir-reportage di Tino Mantarro
Il colle del Gran San Bernardo

Il colle del Gran San Bernardo - WikiCommons

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I passi non servono più a nulla. Perlomeno in Europa, perlomeno sulle nostre montagne, i valichi che per millenni hanno messo in comunicazione versanti contigui ora sono, nella migliore delle ipotesi, mete per gitanti, motociclisti e ciclisti; oppure, semplicemente, sono stati abbandonati e dimenticati. Ci sono i trafori ormai, tunnel sempre più lunghi e arditi, ed è giusto che sia così: perché è la montagna che si evolve, anche nelle comunicazioni.

Eppure un qualcosa si sente di aver perso: il sapore della conquista, l’affacciarsi su ciò che è diverso e nuovo. Un qualcosa che prima non si conosceva, e che si ritrova invece in ogni pagina del brillante libro di Tino Mantarro L’attrazione dei passi. Piccolo invito a scoprire cosa c’è oltre le cime (Ediciclo, pagine 94, euro 9,50). Un po’ reportage un po’ memoir un po’ digressione storica e letteraria, il libretto si muove tra i nostri valichi alpini e i più remoti passi del Tibet o del Caucaso: un viaggio che non è itinerario materiale bensì ideale, dove la rotta è tracciata dall’immaginario e dal filo del racconto. Non che i luoghi siano fittizi, anzi: Mantarro da anni percorre un proprio originale giro del mondo a tappe utilizzando i mezzi più disparati, sempre immerso nelle popolazioni dei vari luoghi che attraversa – o forse è meglio dire che incontra.

Tutto parte dalla natia Valtellina, non in altura ma in quei larghi fondovalle che sono montagna-nonmontagna: paesaggi dominati dalle creste ma da queste separate da una distanza rarefatta. Picchi aguzzi e vette innevate sono la montagna “inventata”, per richiamare l’intuizione di Joutard; la montagna della realtà è quella dei declivi coltivati strappando terrazzamenti con la tenacia di generazioni, dei torrenti che diventano fiumi e laghi, degli assi portanti delle strade (e qualche volta delle ferrovie, sempre che non siano state chiuse dalla miopia italica) lungo le quali si allineano le nuove case, i nuovi capannoni.

Così la Valtellina, come cento altre valli alpine, ingolosisce i suoi stessi abitanti con quelle montagne che la circondano: «Se cresci in un paese che è aggrappato ai fianchi della montagna come un quadro alle pareti – scrive Mantarro –, allora vivi fisicamente una naturale dimensione alpestre, ti appartiene, ti entra dentro. Se invece è un posto di montagna che non è proprio montagna, ma sta in mezzo, allora è possibile che si sviluppi la voglia non di conquistarle, ma di scavalcarle. Soprattutto se, come il poeta John Donne, hai sempre pensato che “vivere in una sola terra è prigionia”».

Per non farsi imprigionare Mantarro inizia dallo Spluga, lo spartiacque carico di suggestioni tra il Po e il Reno, e arriva al Shakhristan in Tagikistan o al Khunjerab tra Cina e Pakistan. Ma non ci sono esotismo o compiacimento, nelle sue pagine. Da uomo di confine, sa che ogni confine è sfumatura e non linea netta: una consapevolezza che, almeno in Italia, sembra degradare ancor più velocemente dell’altitudine mano a mano che ci si allontana dalle Alpi. Il passo, per sua natura, è comunicazione e scambio; uno Stato può arrivare a serrarlo manu militari, ma per farlo ha bisogno di imporre con l’esercito una chiusura che è ostile alla stessa natura umana: quella che alla fine, con il tempo, trova sempre il modo di aggirarla. Magari imboccando la strada della valle vicina, e del suo passo.

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