sabato 16 aprile 2022
Nel pensiero del trappista americano la nonviolenza è una scelta attiva e profetica. Il nonviolento è un mite che cerca giustizia: è in gioco la capacità di risolvere i conflitti con la ragione
Il monaco trappista Thomas Merton (1915-1968)

Il monaco trappista Thomas Merton (1915-1968)

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La Pira e Mounier, due protagonisti del cristianesimo sociale del ’900, sono stati citati più volte in questi giorni di guerra, anche se in maniera non univoca, nel dibattito sul pacifismo cattolico. Ma ci si è dimenticati di un altro personaggio cruciale,Thomas Merton, che dinanzi all’incubo di una guerra nucleare ha fatto sentire più volte la sua voce.

Eravamo negli anni Sessanta, in piena Guerra fredda, e quello che sarebbe diventato forse il monaco più famoso secolo scorso, la cui autobiografia spirituale, La montagna dalle sette balze, è tuttora un best seller, scriveva di essere angosciato perché «il mondo e la società degli uomini si trovano oggi sull’orlo della distruzione». Così si legge in un articolo scritto dal trappista americano per il numero di Natale del 1961 della rivista Commonweal. E specificava: «Una distruzione possibile: è relativamente facile, nel momento attuale, spazzare via l’intera razza umana per mezzo di agenti nucleari, batteriologici o chimici, presi separatamente o insieme. Una distruzione probabile: la possibilità della distruzione diventa una probabilità nella misura in cui i leader mondiali si impegnano in modo sempre più irrevocabile in politiche costruite sulla minaccia di usare questi agenti di sterminio». Poi, il richiamo alla fine del mondo, dato che «non è un’esagerazione affermare che i tempi in cui viviamo sono apocalittici, nel senso che sembriamo aver raggiunto un punto in cui tutto il celato, misterioso dinamismo della storia della salvezza rivelataci dalla Bibbia è fiorito in una crisi decisiva e finale». E ancora, in un crescendo tragicamente profetico: «Non è necessario insistere sul fatto che, in un mondo in cui un altro Hitler è altamente possibile, la mera esistenza di armi nucleari rappresenta il più tragico e grave problema che la razza umana abbia mai dovuto affrontare. Ma in realtà l’atmosfera di odio, sospetto e tensione in cui tutti noi viviamo è esattamente quella che serve per produrre nuovi Hitler».

Per chi voglia approfondire il pensiero di Merton sulla pace, consigliamo di prendersi in mano i volumi La mia passione per la pace, edito da Garzanti nel 2017 e La pace nell’era postcristiana pubblicato da Qiqajon nel 2005, che contengono la maggior parte dei suoi testi sul-l’argomento. Dinanzi alla prospettiva prima delineata, come immaginare una reazione, soprattutto da parte dei cristiani? Una risposta la si trova in un altro articolo, chiestogli nel 1965 dalla rivista tedesca Der Christus in der Welt e intitolato "Beati i miti: le radici cristiane della nonviolenza". Qui Merton delinea il suo pensiero, spiegando che «la nonviolenza cristiana non si costruisce su una divisione presupposta, ma sulla basilare unità dell’uomo».

Sulla scia di Gandhi, la cui azione politica basata sulla nonviolenza è innanzitutto una scelta interiore di stampo religioso, Merton mette in guardia dai pacifisti malati di fariseismo e che dividono il mondo fra amici e nemici, senza essere veramente disposti a dialogare con l’altro anche se la pensa diversamente. Così come dal «feticismo dei risultati immediati » e dalla «tentazione di ottenere pubblicità con trucchetti spettacolari o con forme di protesta meramente bizzarre e provocatorie».

Per lui il nonviolento è innanzitutto un mite, che cerca la giustizia e l’umiltà. Anche se - precisa - il mite non è affatto colui che si sottomette passivamente a un’oppressione ingiusta. E insiste: «La chiave della nonviolenza è la volontà del resistente nonviolento di subire una certa quantità di male accidentale al fine di creare un cambiamento di mente nell’oppressore e risvegliarlo all’apertura personale e al dialogo». È in gioco, ieri come oggi, la capacità di risolvere i conflitti con la ragione e con l’arbitrato invece che con il massacro e la distruzione.


Il pacifismo per Merton «è il rifiuto di qualsiasi alternativa a generare le guerre tese a imporre un’accettazione incondizionata di un’interpretazione ipersemplificata della realtà». Di fronte ad essa occorre «tenere aperte le menti a molte alternative. La rigidità di un certo tipo di pensiero cristiano ha seriamente invalidato tale capacità, che la nonviolenza deve ripristinare».

Un esempio di resistenza nonviolenta alla dittatura Thomas Merton la ritrova nella Danimarca, la cui popolazione durante gli anni del nazismo spontaneamente si mobilitò rifiutandosi di collaborare all’opera di deportazione, tanto che il 95% della popolazione ebraica riuscì a salvarsi. Quando il progetto dei tedeschi cominciò a profilarsi e fu proposto come primo gesto di segregazione l’introduzione della stella gialla, i funzionari del governo danese fecero sapere ai nazisti occupanti che il re sarebbe stato il primo a portare quel distintivo. E quando si avvicinò la soluzione finale, i danesi tutti si rifiutarono ancor più di collaborare e promossero una serie di scioperi boicottando la riparazione delle navi tedesche nei loro porti e promuovendo manifestazioni di protesta. Lo stesso Eichmann dovette rinunciare alla deportazione in massa degli ebrei: solo il 5% alla fine fu mandato nei lager, ma finì a Theresienstadt, il meno duro. Tutti gli altri erano stati trasportati a bordo di piccole imbarcazioni nella vicina Svezia, allora neutrale, e poterono salvarsi.

La vicenda, raccontata a suo tempo da Hannah Arendt, fu celebrata da Merton sul Catholic Worker nel 1963, in un articolo ove fra l’altro si meravigliava che altri popoli in Europa, anch’essi cristiani, non fossero stati capaci di opporsi al programma di sterminio degli ebrei con uguale efficacia. L’esempio della Danimarca serve a Merton per dimostrare come la scelta della nonviolenza non significhi solo una presa di posizione contro la guerra e la barbarie, ma sia un modo di vivere che influenza tutta l’esistenza.

Gli anni in cui il monaco trappista, che papa Francesco nel suo viaggio negli States ha identificato come uno dei quattro americani illustri della storia (assieme a Lincoln, Martin Luther King e Dorothy Day) scrive questi articoli sono quelli della Guerra fredda, dei conflitti razziali negli Stati Uniti e del Vietnam. Ma in lui non alberga alcuno spirito antiamericano, come dimostrano le sue prese di posizione a favore dei cristiani che subivano una durissima persecuzione nei regimi comunisti dell’Urss e dei paesi satelliti dell’Est europeo. E come dimostra un altro suo mirabile libretto tradotto da Medusa nel 2019 e semplicemente intitolato Pasternak, in cui vede nella rivoluzione russa «un caotico tronfio ondeggiare di forze oscure. Nessuna verità nuova ne è nata, ma soltanto una maggiore e più sinistra falsità». Per questo non venne permessa la pubblicazione de Il Dottor Zivago.

Nessun irenismo da parte di Merton dunque, ma solo la convinzione della scelta nonviolenta come unica arma del cristiano, da applicare nelle varie circostanze che si presentano nella storia. Come rimarca ancora nel saggio citato del ’65: «È il rifiuto di qualsiasi alternativa a generare le guerre tese a imporre un’accettazione incondizionata di un’interpretazione ipersemplificata della realtà». Di fronte ad essa occorre «tenere aperte le menti a molte alternative. La rigidità di un certo tipo di pensiero cristiano ha seriamente invalidato tale capacità, che la nonviolenza deve ripristinare».

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