giovedì 19 agosto 2021
Come rendere il titolo del capolavoro eliotiano? Carmen Gallo nella sua nuova traduzione accentua il significato politico, nella sua biografia Daniele Gigli si incentra invece sul valore metafisico
Thomas Stearn Eliot nel suo ufficio alla Faber & Faber nel 1956

Thomas Stearn Eliot nel suo ufficio alla Faber & Faber nel 1956 - Alinari

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Ma come sarà questa terra? Desolata, devastata, guasta? La resa italiana del titolo di The Waste Land di T.S. Eliot rappresenta un capitolo non marginale per quanto riguarda la ricezione del poemetto. Capolavoro della prima maturità di Eliot, The Waste Land viene pubblicato a Londra nel 1923 al termine di un complesso processo compositivo che deve molto all’intervento di Ezra Pound, non per niente dedicatario dell’opera con la qualifica dantesca di «miglior fabbro». E dantesca, secondo Daniele Gigli, autore dell’innovativo saggio biografico T.S. Eliot. Nel fuoco del conoscere (Ares, pagine 168, euro 14,00), sarebbe la soluzione più adeguata, con un puntuale richiamo al canto XIV dell’Inferno , dove Virgilio rivela l’esistenza del «paese guasto» dal quale hanno origine i fiumi d’oltretomba

La dizione, del resto, era stata adottata già da Mario Melchionda nel 1976 ( La terra guasta , Mursia) e da Angiolo Bandinelli nel 1996 ( Il paese guasto , Stampa Alternativa), con un dichiarato scostamento rispetto al più diffuso La terra desolata , peraltro avallato dallo stesso Eliot in occasione della pubblicazione della versione delle Poesie curata da Roberto Sanesi per Bompiani nel 1961.

L’ipotesi del “guasto” viene presa in esame anche da Carmen Gallo, che però opta per un’alternativa ancora differente: La terra devastata (il Saggiatore, pagine 176, euro 19,00, con testo originale a fronte). Secondo la traduttrice, alla quale si deve anche l’ampio e approfondito commento, il rimando alla sola Commedia rischierebbe di non rendere conto della «grande varietà di fonti e di tradizioni culturali convocate nel poemetto, con effetti stranianti».

Si tratta di una pluralità di suggestioni esaminata nel dettaglio dallo stesso Gigli, che tuttavia, pur senza trascurare gli altri apporti (il ciclo del Graal, anch’esso esplicitamente indicato da Eliot, le Upanisad induiste, il buddhismo, la storia antica, i Vangeli...), finisce per ribadire la centralità assoluta del modello dantesco per quanto riguarda non solo The Waste Land, ma l’intera opera di Eliot. «La lezione di Dante – scrive Gigli – è a un tempo tecnica e morale, deontologica; anzi è morale e deontologica proprio in quanto tecnica».

L’osservazione riporta a quella che, a giudizio di Gigli, va considerata come la vera conversione del poeta. Non tanto l’adesione alla Chiesa Alta (il cosiddetto ramo “anglocattolico” dell’anglicanesimo, nel quale viene accolto nel 1927) quanto la scelta, risalente ad alcuni anni prima, di compiere attraverso la letteratura la ricerca che, in un primo momento, si era prefissato di affrontare per via filosofica. Qualcosa di molto simile, insomma, al transito dal Convivio alla Commedia.

Ma nel caso di Eliot va registrato un altro passaggio, quello dagli Stati Uniti (era nato a Saint Louis nel 1888) all’Europa, che per lui fu sì il Regno Unito (cittadino britannico e premio Nobel nel 1948, morì a Londra nel 1965), ma anche la Parigi del primissimo Novecento, tappa obbligata per la formazione di un’intera generazione di artisti e intellettuali.

Il libro di Gigli ha il merito di proporre un’interpretazione unitaria e coerente della vicenda umana e poetica di Eliot, che troppo spesso è stata arbitrariamente troncata in due. A una prima fase, nella quale lo sperimentalismo del verso dà voce alle inquietudini della crisi deflagrata all’indomani della Prima guerra mondiale, ne farebbe dunque seguito una seconda, improntata a una compostezza quasi consolatoria, esito della già ricordata conversione religiosa. La quale, a sua volta, è non di rado derubricata al rango di scappatoia. Il risultato è che, mentre rimane inatto il valore di The Waste Land, i magnifici Quattro quartetti possono essere additati come esempio di letteratura «pétainista» dall’intransigente George Orwell.

Lo sdoppiamento tra un Eliot e l’altro, avverte Gigli, è solo la conseguenza di un effetto ottico, oltretutto fortemente connotato in senso ideologico. Fin dai suoi esordi, infatti, il poeta alterna un registro di corrosiva ironia a un altro, più sommesso ma non meno riconoscibile, di indagine mistica: il primo risulta predominante nella produzione giovanile, il secondo si fa sempre più articolato con il passare del tempo, fino a culminare nel dettato solenne dei Quattro quartetti. Anche per questo, avverte Gigli, The Waste Land è un crocevia, non uno spartiacque né tanto meno un punto di arrivo.

Le cinque sezioni del poemetto descrivono una traiettoria che dalla contemplazione dello sfacelo presente conduce alla visione finale, nella quale i «frammenti» di una sapienza senza tempo possono «puntellare» quelle che Eliot indica come «le mie rovine». L’appello conclusivo, com’è noto, è affidato alla triplice invocazione sanscrita «Shantih shantih shantih». Una richiesta di pace che Carmen Gallo interpreta come un’allusione all’instabilità del contesto geopolitico postbellico, in stretta consonanza con le riflessioni contemporanee di Paul Valéry.

Ora, è indubbio che lo spaesamento della cultura europea davanti alla tragedia della guerra sia un elemento irrinunciabile di The Waste Land (che per Gallo è «terra devastata » proprio a causa dello scempio compiuto dagli eserciti). Nondimeno, ricondurre questo e altri testi di Eliot a una dimensione esclusivamente o prevalentemente politica viene a innescare una serie di equivoci, compreso quello di un’ulteriore spaccatura all’interno di un’opera la cui compattezza è ben documentata dalle ricerche di Gigli, che di Eliot è anche traduttore. Nella fattispecie, risulta determinante il recupero degli scritti filosofici giovanili, tutti incentrati sul rapporto fra conoscenza ed esperienza.

Sotto ogni aspetto decisivo è l’intreccio che lega le suggestioni derivanti dal simbolismo francese (in virtù del quale, afferma Eliot, diventa possibile «trarre poesia dalle risorse inesplorate dell’impoetico») alla lezione di un pensatore come Francis Herbert Bradley, al quale il poeta deve la messa in questione del fondamento oggettivo della realtà. Al «solipsismo imbalsamato» dei filosofi Eliot preferisce da ultimo quella particolare forma di speculazione poetica che si riscontra, tra l’altro, in uno degli autori da lui prediletti, il metafisico John Donne: «Un pensiero per Donne era un’esperienza – annota Eliot –, modificava la sua sensibilità». Esattamente quello che accade ancora oggi ai lettori della Terra devastata o, se si preferisce, a quanti si avventurano nel «paese guasto» lasciandosi guidare da Eliot.

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