sabato 25 maggio 2024
In concorso sulla Croisette, e possibile vincitore, "The Seeds of the Sacred Fig" di Mohammad Rasoulof è un lucido atto d'accusa contro la violenza in primis psicologica del regime di Teheran
Il regista iraniano Mohammad Rasoulof con le foto degli attori Missagh Zareh e Soheila Golestani, che non possono lasciare il Paese

Il regista iraniano Mohammad Rasoulof con le foto degli attori Missagh Zareh e Soheila Golestani, che non possono lasciare il Paese - Ansa

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Un affresco lucido e agghiacciante della società iraniana oggi, patriarcale e violentissima, colpevole non solo di una brutale repressione sociale, ma anche di una spietata distruzione del tessuto famigliare, destinato a replicare nel microcosmo domestico le disumane dinamiche che regolano l’intero Paese. Per raccontare ingiustizie e caos, sopraffazione e vendetta è arrivato al Festival di Cannes il regista Mohammad Rasoulof, che ha presentato ieri in concorso The Seeds of the Sacred Fig (a quattro anni dal suo ultimo lavoro, Il male non esiste, quattro episodi sulla pena di morte in Iran, Orso d’oro alla Berlinale), collocatosi tra i super favoriti della vigilia alla Palma d’Oro, che verrà consegnata stasera durante la cerimonia di premiazione. Nelle sale italiane invece il film verrà distribuito da Lucky Red.

La vita del regista stesso in questi ultimi anni potrebbe diventare materia per un film. Arrestato nel 2022 (e non era la prima volta), proprio all’inizio del movimento “Woman, Life, Freedom”, che ha rivelato al mondo il coraggio delle donne pronte a sacrificare la propria vita per la libertà, il regista è stato poi rilasciato e ha cominciato a pensare al suo nuovo lavoro quando il membro di uno staff carcerario gli ha confessato la sua tentazione di impiccarsi proprio all’ingresso della prigione, schiacciato dai sensi di colpa per il suo lavoro. È nata così la storia di Iman, appena promosso giudice investigativo della Corte di Teheran all’indomani dell’assassinio della giovane Mahsa Amini, che ha scatenato grandi proteste di piazza. Il governo usa il pugno di ferro e Iman è costretto a fare i conti con i costi psicologici di un impiego che lo costringe a firmare ingiuste sentenze di morte. Ma quando scopre che la sua pistola di servizio è sparita mettendo a rischio la sua reputazione e il lavoro stesso, l’uomo comincia a sospettare della moglie e delle figlie, che nel frattempo, chiamate a osservare una condotta ancora più irreprensibile, si sono però lasciate emotivamente coinvolgere dalla protesta delle donne, soccorrendo in casa anche una giovane amica ferita al volto durante le manifestazioni. Quando la paranoia si impossessa di lui, Iman applica la furia delle sue inchieste alla propria famiglia, oltrepassando i più elementari confini di rispetto e umanità.

Ci sono voluti mesi per mettere insieme il cast e la troupe disposti a rischiare l’arresto per realizzare il film, ovviamente in clandestinità, e a sfoderare tutto il proprio coraggio per continuare le riprese anche quando la minaccia di essere scoperti diventava più pressante. Circa un mese fa però, avvertito dal proprio avvocato che la sua condanna a otto anni di prigione era stata confermata, e che i dettagli sul suo nuovo film sarebbero stati presti rivelati, con il fortissimo rischio di un ulteriore inasprimento della pena, Rasoulof ha deciso di lasciare illegalmente l’Iran (il suo passaporto è stato confiscato dalle autorità) e di raggiungere l’Europa. La conferma che sarebbe riuscito a raggiungere la Croisette è arrivata solo tre giorni fa.

Il fatto poi che le attrici protagoniste, Soheila Gholestani, Mahsa Rostami e Setareh Maleki recitino a capo scoperto, senza la hijab d’obbligo nei film iraniani, ha messo in pericolo anche loro. E se le ultime due sono anch’esse fuggite dal Paese, scatenando dure pressioni sulle rispettive famiglie, la Gholestani è rimasta in Iran e, a detta del regista, ne sta pagando le conseguenze. Nei panni di Iman c’è invece Misagh Zare, un attore che ha spesso rifiutato di recitare nei film sostenuti dal governo in chiara opposizione alla propaganda di regime.

In The Seed of the Sacre Fig, una lenta e angosciosa discesa agli inferi di una famiglia borghese stritolata dalle follie del regime, il regista utilizza molti video girati dai telefoni cellulari, divenuti ormai delle vere e proprie armi puntate contro l’oppressore, per testimoniare la durezza della repressione.

«Volevo prima di tutto mostrare l’importanza dei cellulari – spiega il regista – che ora consentono alle giovani generazioni di avere una più ampia visione del mondo. Grazie alla rete i loro occhi sono aperti su tutto ciò che accade non solo nei rispettivi Paesi. Volevo inoltre sottolineare la consapevolezza acquisita dai giovani proprio grazie alle nuove tecnologie. E poi queste immagini erano le uniche a mia disposizione per mostrare cosa accadeva fuori, oltre le mura delle case all’interno delle quali giravo. Era infatti impossibile per me effettuare riprese all’esterno».

Dopo il suo ultimo film il regista prosegue dunque la sua ricerca sulle persone che permettono concretamente al sistema repressivo del regime di Teheran di funzionare. «Non si tratta solo di un meccanismo, ma esistono degli individui che quel meccanismo lo fanno funzionare. Chi sono e in che stato emotivo si trovano? Per me che sono stato in prigione, che ho subito interrogatori e processi, non è stato difficile osservare i protagonisti del sistema giudiziario e cercare delle risposte alle mie domande. Il mio film mette in scena proprio alcune delle persone che ho realmente incontrato nella mia vita».

Sarebbe un peccato rivelare il finale del film, ma possiamo dire che lo sguardo del regista al futuro non è affatto privo di speranza. Una speranza che nasce dalla consapevolezza e dall’azione delle donne più giovani e determinate a riprendere in mano il proprio destino. «Il regime non durerà ancora a lungo - dice Rasoulof - perché non possiamo permettergli di tenere in ostaggio la nostra gente violando ogni giorno i diritti umani della popolazione. Quando ho capito che sarei tornato in prigione ho avuto pochissimo tempo per decidere e con il cuore a pezzi ho scelto l’esilio. Ma da lontano continuerà a raccontare al mondo le storie del mio Paese, che sarà sempre dentro di me. E credo che la comunità cinematografica del mondo, con il supporto di organizzazioni internazionali, debba garantire protezione a chi realizza film come i nostri, difendendo chiaramente e ad alta voce la libertà di parola. Molte persone mi hanno aiutato in questi e ora il mio pensiero e i miei timori sono tutti per loro e la loro sicurezza».

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