giovedì 25 novembre 2010
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Riferirsi a Cristo. Solo a lui. Sembra quasi una sfida impossibile in una terra in cui i cristiani sono un manipolo di credenti stretti fra due religioni molto più forti, in uno Stato di confessione ebraica, circondato da una società islamica. Ma Vincent Nagle ama le sfide quasi impossibili. Mentre arriviamo di fronte al Muro del Pianto, spettacolo moderno di preghiera antica, dove un nugolo di scialli ondeggiano sotto il vento mattutino, mi racconta un episodio emblematico di cosa significhi per lui fare missione qui, tra cristiani in minoranza, ebrei «di Stato», musulmani all’opposizione: «Una volta stavo facendo lezione all’università di Betlemme, era il giorno dello Yom Kippur, quando i confini tra i Territori e Israele vengono ermeticamente chiusi. In Cisgiordania la maggior parte della popolazione, musulmana, naturalmente non viene toccata da questa festa ebraica. Ma proprio in quei giorni ho detto ai miei studenti, per lo più musulmani: "Gli ebrei stanno pregando per il perdono dei loro peccati". E ho aggiunto: "La colpa più grande che gli ebrei possono commettere è cedere alla paura. Dobbiamo pregare per questo e chiederci come noi possiamo agire perché essi siano liberati dalla paura". Tutti gli studenti sono rimasti choccati dal discorso: non l’hanno accolto per niente bene, l’ho capito da alcuni indizi. Erano parole insolite, come di un’altra lingua, non capivano il senso del mio discorso. Però io sono solito ripetere ai cristiani, ad esempio quando ero in parrocchia a Nablus: "Cosa dobbiamo fare? Se non viviamo la pace tra di noi, è inutile sperare che ci sia con gli israeliani". La parrocchia di Nablus era infatti tormentata da lotte interne. Il Signore vuole darci un regalo che noi possiamo poi passare agli altri. Se non siamo custodi di questo regalo, come possiamo offrirlo a nostra volta?». Le risposte? Vincent racconta l’episodio, eloquente, della visita del Papa in Terra Santa, a lungo osteggiata dai cristiani arabi: «A Nablus in molti hanno dubitato dell’opportunità di questo viaggio. Mi spiego meglio facendo un confronto fra la visita in Terra Santa di Giovanni Paolo II nel 2000 e quella di Benedetto XVI nel 2009. Per il viaggio di Wojtyla c’era molta aspettativa e speranza tra i cristiani: il processo di pace tra israeliani e palestinesi andava avanti da 7 anni, tra mille problemi, ma anche con diversi elementi positivi. Quindi il Papa veniva anche – secondo i cristiani di qui – per "benedire" quella situazione in netto miglioramento. Dopo quasi dieci anni da quel viaggio, la situazione è completamente diversa e la condizione dei cristiani palestinesi è oggettivamente peggiorata, anche a livello politico. Per cui molti di loro si sono domandati, e mi hanno chiesto: perché viene Benedetto XVI? Per benedire questa nostra condizione peggiorata? Ad esempio, uno dei responsabili di una parrocchia dei Territori ogni domenica si pronunciava, durante gli avvisi dopo la messa, contro il viaggio di Benedetto XVI. Io cercavo di farlo ragionare: "Possiamo lavorare meglio se abbiamo speranza. E il Papa viene proprio per questo, per radicarci nella speranza". E invece lui continuava a ripetere il ritornello che il viaggio del Papa avrebbe favorito gli israeliani. Gli ho risposto: "Tu giudichi il Papa solo per quel che senti da Al Jazeera e da quel che leggi su Al Quds. Per lavorare per la giustizia e la pace dobbiamo essere radicati nella speranza in modo da non lasciarci manipolare da altri". Ma la sua risposta, e quella degli altri cristiani, era sempre la solita: "Tu non sei palestinese e non puoi capire". A quel punto mi fermavo per non approfondire il contrasto, ma ricordavo al mio interlocutore che anch’io sono cristiano e che esiste un’unica realtà che ci unisce, Cristo. Se per noi ha più valore la politica rispetto alla fede nel valutare la realtà, allora il viaggio del Papa è un danno. E per quell’uomo c’è stato un momento in cui la fede e il giudizio che ne deriva sul reale hanno preso il sopravvento sulla considerazione politica: alla messa del Papa a Betlemme ho fatto in modo che lui fosse tra le 40 persone che hanno ricevuto la comunione dalle mani del Papa. Dopo la messa, mi è venuto a dire, commosso: "Ho capito che il Papa è venuto qui per me, proprio per me"».
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