mercoledì 29 settembre 2010
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Non tutto ciò che in Medio Oriente si richiama alla pace può essere messo sullo stesso piano. Non sto parlando solo dei politici che usano questa parola con troppa disinvoltura (persino una provocazione gigantesca come un nuovo insediamento nel cuore di Hebron i coloni l’avevano chiamato Beit Shalom, la «casa della pace»...). In realtà il problema è molto più radicale e chiama in causa direttamente anche il mondo pacifista e le nostre ong. Perché – rispetto alla Terra Santa di oggi – ci sono tante iniziative realmente profetiche, ma ce ne sono tante altre che invece sono solo un ricettacolo di emozioni facili. Per non parlare di quelle che utilizzano il dramma del conflitto solo per dare un tocco di internazionalismo alla propria immagine. Mi rendo conto di essere un po’ drastico, ma vedo crescere in maniera preoccupante la spettacolarizzazione di un tema importante come quello della pace. Vedo in giro a Gerusalemme troppi assessori, troppi organizzatori di eventi, troppe agenzie di pubbliche relazioni. Gente che passa di lì una settimana, monta il suo carrozzone ben ripreso dalle telecamere e poi se ne va, pensando di avere dato un contributo decisivo per «costruire una cultura di pace». La quintessenza di questo atteggiamento sono le «partite del cuore». Devo confessare di aver ricevuto più di una telefonata del tipo: «Lei che è così sensibile al tema della Terra Santa, non potrebbe far sapere che al nostro torneo di calcio partecipano anche una squadra israeliana e una palestinese?».A che cosa serve un gesto del genere? Si prendono un gruppo di ragazzi di Tel Aviv e un altro di Ramallah, li si porta per una settimana a centinaia di chilometri dal loro contesto quotidiano e – guarda un po’ – scoprono di essere ragazzi tra loro non poi così diversi e fanno amicizia. «Ecco lo sport che unisce oltre ogni barriera». Già. Peccato che duri una settimana. Dopo quei ragazzi ritornano a casa e non si incontreranno più. Fino a quando uno dei due sarà militare a un check-point e l’altro in coda senza sapere se quel giorno potrà passare quel posto di blocco oppure no. Non ce l’ho con gli sportivi. È l’atteggiamento che c’è dietro che mi dà fastidio; la presunzione di aver «fatto qualcosa». Del resto è un discorso che vale identico per tanti altri ambiti. Prendiamo la musica: l’orchestra di Daniel Baremboim, in cui suonano insieme giovani strumentisti israeliani e palestinesi, è un grande segno di pace per il lavoro quotidiano che c’è dietro e per la grande libertà con cui il suo direttore parla anche delle questioni più spinose legate al conflitto. Ma lo stesso si può davvero dire per tutti i «concerti della pace» organizzati in questi anni sulla Terra Santa? Si può cedere alla cultura dell’evento-spettacolo persino in un ambito molto serio come il dialogo interreligioso. Succede quando ci si preoccupa più dell’immagine che dei contenuti, quando non si va oltre la retorica dei buoni sentimenti. La grandezza degli incontri promossi da Giovanni Paolo II ad Assisi stava proprio qui: oltre la cartolina pittoresca, c’erano parole impegnative e la potenza di gesti come il digiuno e la preghiera. Se non costa nulla non può essere un dialogo vero. Quotidianità, fatica, accettazione della complessità del conflitto: sono questi i metri intorno ai quali le diverse esperienze vanno assolutamente messe a confronto. Ecco allora il punto: ci vuole più discernimento intorno al tema della pace. Bisogna individuare le esperienze in cui le persone si mettono davvero in gioco e puntare su quelle. Soprattutto occorre evitare che «la pace in Terra Santa» diventi un logo che si può appiccicare sopra qualsiasi cosa. Dobbiamo farlo noi per primi, ma dobbiamo anche esigerlo da chi ci sta intorno. Perché se sommassimo anche solo tutte le cifre che le amministrazioni locali in Italia stanziano ogni anno per iniziative legate alla pace in Medio Oriente verrebbe fuori un numero con tanti zeri. Se abbiamo a cuore la pace in Terra Santa dobbiamo pretendere questa forma particolare di sobrietà. Altrimenti causiamo un ulteriore danno; perché anche la banalità è un nemico potente della pace in Medio Oriente. Insinua l’illusione che sarebbe tutto facile, come una partita di calcio o un prete, un rabbino e un imam che si prendono per mano. Dobbiamo avere il coraggio di dire che non è così, che l’amicizia tra i popoli richiede prezzi che ciascuno deve essere disposto a pagare. Ce un altro luogo comune che va assolutamente sfatato: quello secondo cui «basterebbe un po’ di buona volontà da entrambe le parti» per arrivare alla pace tra israeliani e palestinesi. Se c’è una cosa che non manca in Terra Santa sono proprio le donne e gli uomini di buona volontà.Non finisco mai di stupirmi davanti alla straordinaria creatività messa in campo dagli operatori di pace in Israele come in Palestina. La buona volontà c’è ed è molto più diffusa di quanto possa sembrare: dobbiamo smetterla di dipingere questi popoli per stereotipi. La maggior parte della gente – in Israele come in Palestina – vuole sinceramente la pace. Il problema è che da solo questo desiderio non basta, perché ci troviamo di fronte a un conflitto complesso. Qualche mese fa l’Economist – con un titolo molto efficace – l’ha definito la «nuova guerra dei cent’anni». Dove la durata non è fatta solo di tempo, ma anche di ferite e di contraddizioni rimaste tragicamente aperte, sul terreno come nella carne delle persone. L’unica strada per risolvere un groviglio del genere è scandita da scelte che saranno dolorose per entrambi. Può bastare la buona volontà per affrontarle? Io credo di no. Ed è il motivo per cui non sono affatto convinto che la pace in Medio Oriente dipenda solo da israeliani e palestinesi. Siamo onesti: chi di noi, nei loro panni, rinuncerebbe volentieri a territori conquistati militarmente o al diritto dei nipoti dei profughi del 1948 a tornare nei villaggi dove vivevano i loro nonni? È troppo comodo attribuire l’insuccesso dei negoziati di pace alla loro mancanza di buona volontà. Il vero problema a me sembra piuttosto un altro: la carenza di mediatori veri, dotati di quella libertà necessaria per provare a suddividere in maniera equa i pesi delle macerie che il cammino verso la pace chiede di caricarsi sulle spalle. Su questo aspetto, invece, quanti danni provocano i semplificatori, quelli per cui – qualsiasi cosa succeda – noi abbiamo ragione e loro hanno torto. Ci si divide sempre in filo-israeliani o filo-palestinesi; senza capire che è il modo migliore per perpetuare questa tragedia. Si dice spesso che quando ci sarà la pace a Gerusalemme avremo la pace in tutto il mondo. È una frase importante, che ha una sua verità: ci dice come questa terra contesa, dove la storia ha posto popoli e religioni fianco a fianco, sia un microcosmo dell’intero pianeta. Ma è una frase che va capita bene: non significa che quando loro avranno fatto la pace, allora potremo stare in pace tutti. A me piace leggerla in modo esattamente contrario: solo quando ciascuno di noi, nel contesto in cui vive, sarà capace di promuovere relazioni davvero fraterne con chi è diverso da noi, allora la pace sarà possibile anche a Gerusalemme. Quel giorno non è però dietro l’angolo: dobbiamo riconoscerlo con sincerità; è anche questo un contributo alla causa della pace. Diffidate di tutti quelli che propongono calendari per la riconciliazione: «Nel giro di due anni arriveremo alla definizione dei due Stati», «Il conflitto verrà risolto entro la fine del mio mandato»...Vorremmo tutti vedere presto una Terra Santa riconciliata, però tanti segnali ci dicono che ci vorrà ancora molto tempo. Ma è proprio per questo che i «ponti» sono così preziosi: non sono la soluzione definitiva del conflitto; eppure aiutano a tenere accesa lo stesso la fiamma della speranza. Assolvono il compito più importante per i costruttori di pace in quest’ora della storia. Essere i custodi della speranza nel tempo della disillusione: è questo il profilo richiesto oggi a tutti coloro che portano nel cuore Gerusalemme.
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