sabato 26 agosto 2023
Le “ger” dei nuovi arrivati dalle steppe popolano le enormi periferie della capitale della Mongolia, cresciuta vertiginosamente negli ultimi anni. Il viaggio del Papa
Il “ger district”a Ulan Bator

Il “ger district”a Ulan Bator - Chiara Zappa

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Dal belvedere di Zeisan il panorama di Ulan Bator è un’istantanea delle tendenze che stanno attraversando e trasformando la congestionata capitale mongola e l’intero Paese. La collina al limitare sud della città, frequentata da famigliole in gita e qualche turista, è dominata dal memoriale dedicato all’amicizia con la Russia: un’imponente costruzione circolare sormontata dalla slanciata statua di un militare. Tra le sparute bancarelle di giocattoli e souvenir, il sito ricorda l’alleanza di ferro tra i mongoli e il popolo che, all’inizio del Novecento, li aiutò a liberarsi dall’odiato giogo cinese e con cui poi per settant’anni rimase salda una simbiosi dagli strascichi ancora vivi.

Da quassù, in realtà, i residui palazzi di epoca sovietica non spiccano, sovrastati dai grattacieli di vetro del centro e dagli infiniti edifici residenziali che in pochi anni hanno trasformato lo skyline della città, la cui popolazione in un trentennio è triplicata, arrivando all’attuale quota di un milione e 700mila abitanti. L’impressione principale è quella del disordine, e infatti la mancanza di un’adeguata pianificazione urbana, con il conseguente traffico estenuante alle ore di punta, figura tra le recriminazioni ricorrenti di taxisti e residenti.

Ulan Bator sorge a 1.300 metri di altitudine in una valle cinta da colline e dominata a sud dalla montagna sacra di Bogd Khan Uul, su cui risaltano gli ovoo, i siti sciamanici di pietre sovrapposte che testimoniano una spiritualità antica non scalfita da decenni di ferreo ateismo di Stato. Subito oltre i monti inizia la steppa senza fine, tutta cielo blu e luce accecante, cavalli, pecore e le capre da cui si ricava il cashmere, eccellenza mongola. In questi spazi, ancora oggi regno dei pastori nomadi, si spostava fino a 240 anni fa la stessa capitale, di cui si hanno testimonianze da quattro secoli ma che solo dal 1778 si trova nella sua posizione attuale. Prima di allora, la città non era altro che un “grande accampamento” – questa è la traduzione letterale del suo nome fino al 1911, Ikh Khüree – pronto a muoversi lungo i fiumi, per centinaia di chilometri, alla ricerca di nuovi pascoli. Solo con l’arrivo dei sovietici alle migliaia di ger, le tradizionali tende di feltro che costituivano il nucleo urbano in costante movimento, si affiancarono gradualmente strade e palazzi.

Piazza Sükhbaatar con il Teatro nazionale

Piazza Sükhbaatar con il Teatro nazionale - Chiara Zappa

Le ger, tuttavia, non se ne sono mai andate da Ulan Bator. E oggi, che sempre più famiglie decidono di abbandonare la dura vita delle steppe e cercare fortuna nella capitale, sulle colline intorno al centro crescono i quartieri poveri dove misere casupole in muratura si alternano a migliaia di tende. Nei ger district, privi di fogne e di acqua corrente, in un contesto in cui d’inverno le temperature raggiungono i 40 gradi sotto lo zero, vive oltre la metà dell’intera popolazione della capitale.

Il contrasto con i grattacieli del cuore moderno della città, come l’iconica Blue Sky tower che con la sua forma a vela campeggia accanto alla centrale piazza Sükhbaatar, sede di governo e parlamento, non potrebbe essere più stridente. Non sorprende che qui vadano in scena periodicamente le manifestazioni di cittadini esasperati dal carovita e dalla corruzione della politica. «I governanti rubano e noi non arriviamo a fine mese!», si lamenta una donna di mezza età che regge un cartellone di protesta. Dopo gli effetti della pandemia di Covid-19, il Paese vive ora i contraccolpi dell’invasione russa dell’Ucraina: le sanzioni imposte a Mosca stanno avendo ricadute sulle finanze locali, dai mancati introiti sulle rotte aeree Europa-Asia alle difficoltà nelle vitali importazioni di carburante a causa dei blocchi bancari.

Prima della recente battuta d’arresto la Mongolia – 3 milioni e mezzo di abitanti distribuiti in un’area geografica vasta oltre cinque volte l’Italia – stava vivendo un boom sorprendente. Negli ultimi 25 anni, grazie alla scoperta di ingenti risorse minerarie, il Paese ha triplicato il suo Pil pro capite. Ma le diseguaglianze sono notevoli e le incognite importanti.

«Quasi il 90% delle nostre esportazioni, soprattutto carbone e rame, va in Cina, mentre importiamo il petrolio da Mosca», spiega Dondovdorj Bakhmunt, già consigliere economico del premier e oggi del sindaco della capitale. «Questo significa che rimaniamo dipendenti dai due nostri ingombranti vicini». Tra gli obiettivi dell’ambiziosa “Visione 2030” del premier Oyun-Erdene figura lo sviluppo di un’industria interna ma anche l’urgente transizione ecologica, visto che l’uso massiccio del carbone come fonte energetica ha fatto di Ulan Bator una delle capitali più inquinate al mondo. E la desertificazione minaccia persino le campagne intorno al nucleo urbano.

Il monumento di Gengis Khan a Tsonjin Boldog

Il monumento di Gengis Khan a Tsonjin Boldog - Chiara Zappa

Lungo la strada che porta al monumento dedicato a Gengis Khan a Tsonjin Boldog non è raro imbattersi in squadre di militari intenti a piantumare arbusti: sono gli alfieri della campagna nazionale “Un miliardo di alberi” contro l’avanzata del deserto. La colossale statua di acciaio che con i suoi 40 metri è il monumento equestre più alto al mondo è un tributo al fondatore del glorioso impero mongolo, che nel XIII secolo si estendeva dalla Corea fino alla Polonia. Chinggis, come è chiamato qui, rappresenta uno degli elementi intorno a cui si sta ricostruendo l’identità post-comunista, come dimostra il nuovo e modernissimo museo dedicato al condottiero, aperto a pochi metri da piazza Sükhbaatar.

La rinascita culturale della Mongolia, tuttavia, attinge oggi dalla tradizione – dal buddhismo alle forme teatrali e musicali autoctone – per aprirsi ai nuovi stimoli globali: la recente edizione del festival di Ulan Bator dedicato alla Media art ha portato in diversi angoli della città opere e performance di esponenti tedeschi e taiwanesi, francesi e giapponesi, a fianco di quelli locali. Sulla scena culturale popolare, invece, spicca la Corea del Sud, che domina non solo con l’onnipresente K-pop ma anche con le sue serie tv e il cinema, oltre che con la gastronomia: gli ottimi ristoranti coreani sono una garanzia per gli amanti della buona cucina. Ma anche chi apprezza la movida notturna è destinato a non rimanere deluso, tra i numerosi bar e i popolarissimi locali di karaoke. Ulan Bator, nonostante le sue contraddizioni, punta insomma a diventare una capitale cosmopolita e dinamica, capace di farsi notare sulla scena globale.

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