lunedì 20 agosto 2012
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Sergio Escobar, come sta il teatro di prosa in Italia in tempi di crisi?Vive una crisi strutturale che getta le sue radici ben prima del tracollo di Wall Street. Perché l’aspetto più preoccupante, al di là dei tagli o del disinteresse della classe politica, che pure ci sono, è il fatto che nel nostro paese la cultura è sopportata. Un retaggio duro da sradicare e che ha portato ad un progressivo ridimensionamento delle risorse per la produzione. Il grande rumore che abbiamo fatto per scongiurare il taglio del 35% del Fus non è bastato ad evitare un progressivo impedimento per i teatri a mantenere la loro capacità produttiva che è poi l’unica via che garantisce oggi un lavoro e domani un futuro per i giovani.Quali le cause di questa situazione che, raccontata così, sembra drammatica e irreversibile?In due derive, due estremi di cui il teatro italiano deve liberarsi al più presto se vuole sopravvivere. Da una parte l’esaltazione del teatro fatto in casa per un piccolo gruppo di amici: premesso che non si inventa nulla – vi dice niente la musica da camera? –, quello che mi sconcerta è che si additi questo come il futuro. Ma non è la risposta per rinnovare il pubblico – il lavoro per portare i giovani a teatro è lungo e inizia dalle scuole – né tantomeno per uscire dalla crisi. L’altra deriva è il proliferare incosciente di attività festivaliera sulla quale spesso confluiscono fondi non originariamente destinati alla cultura. Il festival deve essere un luogo di produzione di idee, ma se, come accade sempre più spesso, riproduce cose fatte altrove diventa devastante per tutti.D’accordo, ma non mi dirà che è solo una questione culturale. Non sarà che non si produce più perché mancano i fondi?I progressivi tagli pesano perché non è facile far quadrare i bilanci avendo sempre meno contributi. Fondi, quelli pubblici, che devono essere almeno pari a quelli offerti dai privati. Ma quello che preoccupa davvero è che non si riesce a far passare l’idea che la cultura possa rappresentare una concreta occasione di sviluppo per il nostro Paese. Eppure i dati affermano il contrario: solo per citare il Piccolo, posso dire che negli ultimi nove anni tra Scuola di teatro, stage e contratti di formazione abbiamo avviato al lavoro 450 ragazzi.Ma c’è davvero spazio per i giovani? Oggi quello italiano sembra un teatro per vecchi.C’è una classe dirigente, che tanto assomiglia a quella politica, fatta di grandi anziani (non dico vecchi, perché il termine presuppone una saggezza che oggi manca), registi, ma soprattutto intellettuali, che si circondano di giovani e si fanno scudo di loro abdicando alla propria responsabilità di leggere in modo critico la crisi e mascherando dietro uno sterile giovanilismo la loro incapacità di ingranare con la realtà. Occorre prendere atto che si può nascere incendiari, ma che si deve crescere imparando a spegnere gli incendi inutili e ad accendere quelli di battaglie giuste.Quali quelle da portare avanti oggi?La rinuncia a seguire le mode per proporre un teatro che sia davvero di ricerca e che si sporchi le mani con la realtà. Occorre ridurre gli sprechi e avere grande senso di responsabilità nella gestione del denaro pubblico – mi hanno rimproverato per non aver portato a Milano L’opera da tre soldi di Brecht con la regia di Bob Wilson, grandissimo spettacolo, ma averlo per quattro sere voleva dire spendere la stessa cifra di una nuova produzione e ho detto no. Oggi più che mai, poi, è necessario inventarsi nuove forme di collaborazione. Perché fare sistema certo economicamente aiuta, ma soprattutto perché in un’epoca in cui la comunicazione è globale sarebbe folle, oltre che autodistruttiva, qualsiasi forma di chiusura.L’apertura al mondo, allora, è la ricetta che porterà il teatro fuori dalla crisi?Occorre uscire da una logica egoistica incapace di guardare oltre il proprio orticello. Dobbiamo entrare in sintonia con il pensiero, la lingua e la cultura di realtà diverse che ormai ci ritroviamo in casa per cercare di offrire al pubblico strumenti per leggere il nostro presente. In tempi di crisi la gente va molto di più a teatro perché la prosa, a differenza di altri linguaggi, è in grado di aiutare a leggere la complessità della realtà. Compito del teatro oggi, è dunque raccontare, con gli strumenti di sempre, storie che sappiano aiutare il pubblico a decifrare l’indeterminatezza in cui viviamo per ricondurre il tutto a identità: questo vuol dire essere fedeli al manifesto del 1947 di Strehler e Grassi che auspicavano un teatro d’arte per tutti per ricostruire sulle macerie della guerra e rimettere insieme cocci di una società divisa. Allora era l’Italia del dopoguerra. Oggi il mondo multietnico e alle prese con la crisi.

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