giovedì 22 maggio 2014
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Siamo tutti d’accordo che una delle differenze principali tra noi e i nostri avi di cinquecento anni fa risiede nel fatto che essi vivevano in un mondo “incantato” e noi no. Un modo di rappresentarsi questo cambiamento è dire che noi abbiamo “perso” un certo numero di credenze e le pratiche che tali credenze rendevano possibili. Nella sostanza, diventiamo moderni fuoriuscendo dalla “superstizione” e assumendo un atteggiamento più scientifico e tecnologico verso il mondo. Io, però, vorrei mettere l’accento su un altro punto. Il mondo “incantato” era un mondo in cui avevano un ruolo fondamentale gli spiriti e le forze definite dai loro significati (il tipo di forze posseduto dalle pozioni d’amore o le reliquie). Di più: il mondo incantato era un mondo in cui queste forze potevano plasmare le nostre vite, sia psichicamente sia fisicamente. Una delle grandi differenze tra noi e i nostri precursori è che noi viviamo con una percezione molto più salda del confine che separa il sé dal resto (cioè, dal non-sé). Noi siamo sé “schermati”». Siamo noi a essere cambiati. A volte è difficile per noi provare la stessa paura che provavano i nostri antenati e, in effetti, ci piace evocare le cose misteriose che li terrorizzavano con un brivido piacevole, come quando ci mettiamo davanti allo schermo a vedere film su streghe e maghi. Un piacere del genere sarebbe apparso incomprensibile ai nostri avi [...].Il processo di disincantamento implica un cambiamento di sensibilità: ci si apre a cose diverse, ma allo stesso tempo si è perso un modo importante di fare esperienza del mondo.È questo senso di perdita che sta alla base dei molti tentativi odierni di “reincantare” il mondo. Anche se si sente spesso invocare questo obiettivo, dovrebbe essere chiaro che, anche se il tentativo andasse a buon fine, ciò che si guadagnerebbe non è ciò che abbiamo “perduto”. In gioco ci sono solo modi molto diversi di recuperare un equivalente della sensibilità originaria, non importa se nel senso poetico delle forze all’opera nella natura, come in Hölderlin o in Wordsworth, oppure attraverso il contatto con lo spirito dei defunti [...].Il processo di disincantamento, che ha comportato un profondo cambiamento in noi, può essere letto dunque come la perdita di una certa sensibilità, che costituisce un impoverimento reale (a differenza della mera rimozione di sentimenti irrazionali). E i tentativi di “reincantare” il mondo, o quantomeno i moniti e gli inviti a farlo, sono stati numerosi nel corso degli ultimi secoli. In un certo senso, il movimento romantico può essere interpretato come uno degli sforzi più notevoli di realizzare questo progetto. È sufficiente pensare al “realismo magico” di Novalis o al ritratto dell’universo newtoniano come un universo morto, privato della vita che lo animava un tempo (il tema di una famosa poesia “filosofica” di Schiller: Gli dèi della Grecia).È chiaro, però, che la poesia di Wordsworth, o di Novalis o di Rilke, non può avvicinarsi neanche vagamente all’esperienza originaria della soggettività porosa. L’esperienza che evoca è più fragile, spesso evanescente ed esposta al dubbio. Fa leva, inoltre, su un’ontologia fortemente indeterminata e che deve rimanere tale.
In effetti, l’“incanto” è una condizione che noi, i prodotti del primo vettore (verso il personale, l’interiore e l’impegno), fatichiamo a comprendere. Nella cristianità latina il movimento lungo questo vettore è andato sempre più privilegiando la credenza, in opposizione alle pratiche irriflesse. Le persone con una mentalità “secolare” hanno ereditato questa enfasi e spesso raccomandano un’“etica della credenza”. Non sorprende, perciò, che di norma ci immaginiamo le differenze rispetto ai nostri remoti antenati in termini di diversità di credenze, mentre in realtà qui c’è in gioco qualcosa di molto più misterioso. È chiaro, infatti, che per i nostri avi, e per molte persone oggi che vivono in un mondo religioso simile a quello dei nostri avi, la presenza di spiriti e di differenti forme di possessione non era una questione di credenza (opzionale, volontaria) più di quanto lo sia per me la presenza di questo computer e della sua tastiera sulla punta delle mie dita. C’è moltissimo che non capisco riguardo ai meccanismi interni del mio computer (quasi tutto, a essere franchi) e gli esperti possono facilmente convincermi ad accettare teorie di ogni genere in proposito. Comunque sia, il mio incontro con il computer non è una questione di “credenza”: è una componente basilare della mia esperienza.
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