domenica 18 settembre 2016
TAMARO, il volo della tigre
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In tanti anni non le era mai successo. «Di interrompere la scrittura di un libro sì – confessa Susanna Tamaro – ma di bloccarmi così, a tre quarti della stesura, no. E spero che non mi capiti più, perché è stata un’esperienza che mi ha molto provato. Mi sentivo finita, addirittura depressa. Mi dicevo che, se non fossi riuscita a portare a termine questa storia, non sarei stata mai più capace di raccontare». Non è andata così, per fortuna. Il romanzo è arrivato in fondo, si intitola La tigre e l’acrobata (La Nave di Teseo, pagine 184, euro 16,00) e l’autrice lo presenta oggi alle 18 al Teatro Verdi di Pordenone nell’ambito di Pordenonelegge. «È una fiaba per i lettori di ogni età – spiega – ed è nata anche grazie ad Avvenire »

Com’è andata? «Un paio di anni fa, mentre raccoglievo gli appunti per la rubrica di prima pagina Un cuore pensante [ora in volume da Bompiani, ndr], mi era venuto in mente un breve apologo su una tigre, da sviluppare in due o tre puntate. Poco a poco, però, mi sono resa conto di avere tra le mani il germe di un racconto più ampio. Era come se la tigre scalpitasse per uscire dallo spazio in cui l’avevo costretta e pretendesse di raccontare tutta intera la sua avventura. Che è, in primo luogo, un’avventura spirituale».

Perché tra i personaggi figura uno sciamano? «Non solo per questo, anche se si tratta di uno sciamano molto particolare, che rinuncia a servirsi dei poteri di cui dispone. Gliene manca la volontà, forse, o forse dentro di sé ha compreso che questa non è la via giusta. Il compimento del suo cammino sarà il sacrificio, non il dominio sugli altri».

Il vero protagonista però è un altro. «Certo: è la tigre, “la sanguinaria tigre siberiana” annunciata dai cartelloni del circo in cui, a un certo punto, viene imprigionata. Lei, in realtà, non ha proprio nulla di sanguinario. Nata nella taiga, sarebbe destinata a costruirsi un regno in cui cacciare grandi prede, ma si accontenta di un bottino molto più modesto, assaltando piccoli animali che bastano appena a sfamarla. Ma il suo desiderio è immenso, è la chiamata dell’infinito: una nostalgia che la tigre assimila a una sete impossibile da estinguere con l’acqua dei ruscelli».

È l’acqua di cui Gesù parla nell’incontro con la Samaritana? «Sì, non potrebbe essere altrimenti. La mia ambizione, non so quanto riuscita, era di scrivere una fiaba nella cui struttura fossero riconoscibili i passaggi interiori che portano alla redenzione ».

Una fiaba cristiana? «Esattamente: un racconto che mi lasciasse la libertà di fondere realismo e immaginazione, permettendomi di dire qualcosa che altrimenti non poteva essere detto. Del resto è stato un grande poeta cristiano, Thomas Stearns Eliot, a parlare di “Cristo la tigre”».

E questo è il motivo per cui lei ha scelto una tigre? «Mi sono resa conto della coincidenza solo in un secondo momento. All’inizio è stata la tigre in sé ad attirarmi, la bellezza irripetibile di un animale maestoso nel quale si incontrano potenza ed eleganza, indolenza e solitudine. Questo è stato l’elemento decisivo: il fatto che ogni tigre, e in particolare la protagonista della mia storia, sia una grande solitaria. Per i lupi, che amo molto e di cui ho scritto in passato, è invece fondamentale la dimensione comunitaria, del branco. Ma la tigre, nel suo solenne isolamento, è più predisposta alla ricerca dell’assoluto».

E l’acrobata del titolo che cosa c’entra?  «Durante la permanenza nel circo la tigre resta affascinata dalla leggerezza dei trapezisti e in questo modo il volo diventa un’altra espressione del suo desiderio di infinito. Ora, è chiaro che una tigre non può mettersi a volare, almeno non in una fiaba realistica come quella che ho tentato di scrivere. Ma questo non impedisce di riconoscere nell’aspirazione al volo l’appello della Grazia, che libera e salva. Il piccolo acrobata che fa la sua comparsa in un punto cruciale del racconto è per me proprio questo: un messaggero della Grazia».

Nel libro linguaggio e visione sono strettamente intrecciati. «Vero. Uomini e animali parlano tra loro, ma solo ad alcune condizioni: devono desiderare di comunicare gli uni con gli altri, devono custodire dentro di sé un atteggiamento di comprensione e di rispetto. È quanto accade normalmente nelle fiabe della tradizione africana, nelle quali mi viene spontaneo immedesimarmi, nonostante le mie origini mitteleuropee. Ma anche per il cristianesimo la capacità di dialogare con il mondo animale è la virtù di chi ha il cuore puro, come dimostrano le vicende di molti santi».

Da qui viene la visione? «La meditazione sull’atto di vedere sta al centro dell’insegnamento che lo sciamano lascia alla tigre. Avere gli occhi non è sufficiente, dice, occorre uno sguardo capace di riconoscere la verità. Solo così si può accedere alla visione. La crisi della nostra società, a mio avviso, si riassume in questo: abbiamo occhi usurati, siamo privi di uno sguardo appassionato, non riusciamo più a sviluppare una visione di speranza, che contempli al futuro. Ecco perché, oggi più che mai, il compito di uno scrittore consiste nell’offrire uno sguardo a chi l’ha smarrito».

Anche a costo di una certa durezza? «Lo so, nel libro ci sono momenti di intenzionale franchezza. Come quello in cui l’orso ammaestrato viene eliminato con una “punturina”, in modo da evitargli il fastidio della sofferenza e impedirgli, più che altro, di dare fastidio agli altri. Ma anche la mia tigre, benché sensibile e pensosa, rimane pur sempre una tigre. Insegue, cattura, sbrana. Rappresentarla in maniera più edulcorata sarebbe stata una mistificazione, come purtroppo molte se ne incontrano di questi tempi. Da conoscitrice della natura, sono contraria a ogni semplificazione ideologica, a ogni banalizzazione che tenda a ignorare o cancellare la realtà della sopraffazione di un animale sull’altro. Non sempre la natura ci appare con il volto di una madre benigna. Più spesso è aggressiva e spietata come una tigre. Anche una tigre, però, può aspirare alla redenzione».

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