lunedì 12 ottobre 2009
Cosa spinge ogni anno migliaia di persone a ritirarsi in un paesino di 161 abitanti in Borgogna? Qual è la fiamma che alimenta una esperienza ecumenica che non sembra sentire i segni del tempo? Una riflessione postuma del grande teologo ortodosso francese a 60 anni dalla fondazione della comunità da parte di frère Roger Schutz.
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Entrare nell’immensa chiesa della Riconciliazione e osservare migliaia di sguardi e di volti ogni volta che arrivo a Taizé mi commuove profondamente.Come ci spieghiamo che ogni anno decine di migliaia di giovani dei cinque continenti si recano a Taizé in pellegrinaggio ininterrotto, settimana dopo settimana?La gioventù ha una straordinaria sete di assoluto. È comprensibile che attualmente molti giovani si rechino nei monasteri. Lo fanno per il Signore? Ciò che prima di tutto sentono in un monastero è un mistero, una pace, una profondità: tutto ciò che la società nella quale viviamo non ha. Mi ricordo un incontro con il grande cineasta Tarkovskij, che diceva: «La sfida della nostra epoca è far sì che l’uomo rimanga una domanda e che non consideri che tutto sia semplice, che tutto sia spiegato e spiegabile». È importante che ci siano esseri, opere e luoghi che pongano la domanda sul mistero dell’esistenza e sul mistero di Dio.Ma non basta porsi la domanda, perché porsela vuol dire scoprire, come diceva lo psicoanalista Lacan, che ciò che definisce l’uomo è la mancanza. Se l’uomo è mancanza, è anche desiderio. Il desiderio è al tempo stesso consapevolezza della mancanza e slancio. Si tratta allora di far sentire che le risposte ci sono ed è a questo punto che senza dubbio interviene una testimonianza come quella che offre la comunità di Taizé, una testimonianza che non ha bisogno di un’iniziazione particolare, perché è accessibile a tutti. In questo mondo che è un mondo che non esplode, ma che implode per mancanza di senso, i giovani trovano a Taizé una risposta, un senso alla vita.Da una parte, vengono ascoltati in modo disinteressato, e questo è per loro estremamente importante. Dall’altra, se si recano a Taizé, è perché hanno anche voglia di sentirsi dire certe cose e hanno voglia di viverle. Spesso vengono perché alcuni amici hanno parlato loro della comunità: l’amicizia, nella nostra epoca, è uno dei valori più importanti per far scoprire la fede. Alcuni giovani, infatti, non sanno a volte più nulla del messaggio cristiano. Forse esiste una specie di "leggenda" di Taizé, un po’ in Francia, ma più ancora in altri paesi e ora sempre di più nei paesi dell’Est. Se ne parla come di un luogo sorprendente, un luogo di incontro internazionale, un luogo di preghiera che esce dall’ordinario; allora si viene qui per vedere e di solito si rimane colpiti: non si può rimanere indifferenti a Taizé.In questo luogo c’è la potenza della preghiera vissuta in un modo molto semplice: un coinvolgimento per giovani che forse non hanno mai pregato, o almeno non in modo consapevole, dato che in un modo o nell’altro ogni essere umano prega. Il giovane d’oggi ha la testa che funziona molto velocemente sia sulle idee che sui sistemi, sia semplicemente su desideri e aspettative che gli vengono proposti dai media. Gli spazi del cuore rimangono, però, incolti ed è molto importante trovare la calma necessaria per sentire la preghiera. Se alcune parole sono pronunciate troppo in fretta o troppo presto, di solito sortiscono l’effetto di "parole vuote" che si aggiungono alle migliaia di "parole vuote" dell’epoca. Per questo il tempo del silenzio, che a Taizé è vissuto in preghiera e in cui i giovani entrano così volentieri, è davvero fondamentale. La preghiera si fonde con il silenzio e il silenzio permette alle parole della preghiera, quando ritornano, di essere parole diverse dalle solite chiacchiere. Viviamo in un mondo in cui c’è una specie di inflazione verbale enorme, ma a Taizé avviene esattamente il contrario e questo attira i giovani. Il senso profondo del mistero è ritrovato come "una luce interiore" e i giovani lo percepiscono. Ed è un grande miracolo che questa luce scaturisca da un volto e che questo volto permetta di decifrare in questa luce tutti i volti.A Taizé i giovani non vivono soltanto un’esperienza di pace e di silenzio profondo, ma vivono anche l’incontro e la festa. E quanto più autentici sono la pace e il silenzio tanto più veri sono l’incontro e la festa. I giovani scoprono a contatto con la comunità un esempio e un’ispirazione invece di tabù o divieti. Viene loro spiegato il senso, il perché e questo cambia tutto. Non esiste moralismo a Taizé. I giovani vi trovano un pudore virile, cioè uomini di grande pudore che vivono al tempo stesso pienamente la loro virilità. Per questi giovani è un esempio prodigioso. Rendiamocene conto: hanno una grande sete di pudore, senza saperlo, e il pudore permette l’"avvento" della persona. E a Taizé cercano anche questo. Al di là di ogni moralismo, ciò è molto importante.Ciò che li attira ancora è senza dubbio una bellezza che dà pace. Vivono in un mondo in cui l’arte talvolta è violenta, la musica può essere violenta, in cui i corpi sono esaltati, ma talvolta si contorcono e perdono il loro senso. Mentre a Taizé esiste ciò che Dionigi l’Areopagita chiamava una «bellezza di comunione». Nel suo trattato I nomi divini afferma che la bellezza è un nome del divino e crea ogni comunione, mentre la bellezza come viene concepita nella società attuale è piuttosto una bellezza di frenesia e anche di possesso, con un elemento quasi magico. I giovani trovano a Taizé una bellezza serena profonda che dona la pace attraverso canti molto belli e al tempo stesso molto semplici, attraverso icone e volti. Non c’è nulla di più bello di un volto che si illumina con uno sguardo di fiducia e di dolcezza. C’è un mistero della bellezza che è, alla fine, la bellezza di Dio.Infine, in un mondo che si divide sempre più al suo interno, reso omogeneo da odi collettivi, i giovani vivono a Taizé un’esperienza di unità nella diversità che risponde ancora una volta ai loro bisogni più profondi. Esistono barriere ma al tempo stesso anche tentativi di universalizzazione: sempre più i giovani viaggiano da un estremo all’altro dell’Europa e del mondo con un senso concreto dell’universale. In un’Europa che si unifica, in un mondo che si unisce, si produce una specie di contrazione, che possiamo chiamare "contrazione di identità", in cui ciascuno, provando forse paura di fronte a quest’unificazione che sembra soffocare ogni cosa nello stesso grigiore tecnico, afferma la propria identità e in generale la afferma contro l’altro. A Taizé, invece, i giovani vengono attratti perché c’è l’universale e al tempo stesso viene preservata l’identità di ognuno. A nessuno viene richiesto di rinunciare alla sua appartenenza nazionale o confessionale; al contrario, queste appartenenze si arricchiranno reciprocamente e impareranno ad accettarsi. I giovani cristiani possono allora vivere l’unità nella diversità. È un’esperienza davvero prodigiosa nel mondo d’oggi. Abbiamo bisogno, adesso, di superare un universale astratto e i particolarismi chiusi e conflittuali. A Taizé c’è un universale concreto e diversi particolarismi aperti che comunicano.Viviamo in una società in cui si ascolta molto poco. Le persone parlano, ma ascoltano soltanto a condizione che possano parlare a loro volta: è un gioco di monologhi. A questo punto, non resta che andare dallo psicoanalista! Invece si dovrebbe vedere come legare la ricerca dell’inconscio e la realtà del super-io che punta verso il senso. In effetti, nell’inconscio umano, non c’è soltanto l’infra-cosciente biologico, cosmico o legato al destino della persona dalla sua infanzia (come Freud e Jung hanno svelato) ma esiste anche un altro super-io (come ha notato uno "psicoanalista dell’esistenza" quale Frankl) che cerca un senso e che punta verso il mistero. La fonte della nevrosi spesso non è la religione ma l’assenza di senso o di religione nel senso profondo della parola. Potremmo dire che è Cristo che ci attende nella profondità del cuore per dare un senso alla nostra esistenza. A poco a poco, tramite il cammino spirituale, il cuore si aprirà. Chiede soltanto di aprirsi. Per questo è tanto più importante che i giovani possano andare da coloro che sono semplicemente uomini che accolgono e che accolgono perché sono resi liberi dalla loro bontà, dalla loro preghiera, dal loro pudore e dalla loro capacità di accogliere in modo disinteressato. È raro che l’amore sia disinteressato: cerca spesso una gratificazione – si ama per essere amati – o assume talvolta una dimensione esclusivamente carnale e qualche volta carnivora. Mentre per i monaci esiste la possibilità di vivere un amore disinteressato che apre al mistero di Dio e al mistero della persona ed è questo che probabilmente attira maggiormente i giovani.Viviamo, inoltre, in una società in cui c’è sicuramente una crisi di paternità. Ora, un monaco è una presenza paterna anche se è molto giovane (l’età non ha nessuna importanza). Si mantiene a una certa distanza dal gioco delle usuali passioni e al tempo stesso offre un’accoglienza. I giovani sono molto sensibili a questo. Sono alla ricerca di una paternità spirituale che possa insegnare loro a esistere e a trovare un senso: sono alla ricerca di uomini che siano come l’incarnazione del senso e con i quali possano parlare a fondo di se stessi e di ciò che li preoccupa. I giovani hanno bisogno di una presenza che abbia qualcosa di gratuito, che non chieda nulla e che sia semplicemente pronta ad ascoltarli. Ora, il monaco non chiede nulla per sé e non cerca di captare, assorbire, sedurre, anzi è pronto ad ascoltare. È così raro nella nostra epoca poter parlare delle cose fondamentali. Perciò i fratelli di Taizé, dai quali i giovani possono andare, di fronte ai quali possono aprire il cuore, compiono un ministero del tutto essenziale.A Taizé non si sottolinea il peccato e di questo sono molto felice. I giovani che non conoscono nulla del cristianesimo, infatti, hanno spesso l’idea che i cristiani dicano loro: «Siete peccatori!». Per i reazionari della nostra epoca è un tema ossessivo dire che i giovani non hanno più il senso del peccato. E questo non è per niente vero.Esiste un’"innocenza dell’essere" che un cristianesimo storico ci ha tolto. Bisogna ritrovare e restituire ai giovani quest’"innocenza dell’essere" e renderli consapevoli che la realtà del peccato non è ciò che essi pensano ma ciò che vivono nei fatti come condizione.Il peccato è quel mistero della separazione, quella sensazione di essere così vicini al paradiso nella bellezza del mondo, nella fiducia di uno sguardo o nella meraviglia di un amore, ma sapendo che, nonostante tutto, lo perderemo. Infatti anche un grande amore rischia di sfociare in un fallimento quando non si è più nulla per l’altro, quando lo sguardo che mi faceva vivere si pietrifica e, se non si pietrifica, chiudo gli occhi come morto. Possiamo passeggiare nella straordinaria bellezza di un paesaggio e essere ricolmi di gioia, ma d’un tratto sentirci improvvisamente tristi perché abbiamo l’impressione che questo mondo così bello non abbia una coscienza propria in cui accogliere la vita: è votato alla morte. Il paradiso è vicino e io non posso entrarci. Cerco di entrarvi di frodo, cerco di entrarvi attraverso la droga, per esempio, e non ci riesco lo stesso; divento pazzo o, più semplicemente, mi uccido e mi troveranno morto per overdose a trent’anni in un quartiere sconosciuto. Questa è la condizione del peccato e i giovani la sentono profondamente. Quando parliamo loro di solitudine, di angoscia e di sconforto umano, capiscono molto bene ciò che è la condizione del peccato. E d’altra parte è per questo che vanno a Taizé.È per questo che, quando mi viene detto che i giovani non hanno il senso del peccato, io rispondo che non è vero e che i giovani non ne possono più di queste storie del peccato della carne. Il linguaggio del proibito e del lecito non è il linguaggio giusto. Bisognerebbe piuttosto parlare di senso e di ciò che è positivo. Se si spiega il senso, se si parla di positivo, si può portare a poco a poco gli altri a cambiare vita, ma non ci si riuscirà mai se si dà loro l’impressione che il cristianesimo sia moralismo o qualcosa di giuridico. Il cristianesimo non è moralismo: è uno slancio, è un fuoco! Come scrive Pasternak in uno dei suoi romanzi: è là dove la vita raggiunge «il suo più alto grado d’intensità».Bisogna, quindi, davvero saper capire i giovani nelle loro mancanze come nel loro slancio, nella loro sete di compassione come nel loro disgusto per l’inquinamento e per questa incredibile disuguaglianza tra Est e Ovest, tra Nord e Sud, e nel loro desiderio di universalità. In seguito, poco per volta, si può cominciare a parlare loro del mistero di Cristo e del mistero dello Spirito santo come una potenza di vita, di creazione e di amore che trasfigura la condizione del peccato e risponde allo sconforto e all’angoscia umana.«Posso soltanto credere in un Dio che danza!» diceva Nietzsche. Cristo è proprio questo "Dio che danza"! Come possiamo vedere, per esempio, nell’affresco della chiesa del Redentore di Chora a Istanbul: Cristo scende agli inferi, ne sfonda le porte con un piede; e con l’altro accenna un movimento di risalita in un biancore sfolgorante e strappa dalle loro tombe Adamo ed Eva! Eccolo, il «Dio che danza»! E il cristiano è una persona che danza nella gioia di sapere che l’amore è più forte della morte, nella gioia di sapere che non siamo più bloccati nello spazio-tempo suggellato dalla morte! La morte non esiste più! Ci sono passaggi, forse difficili, forse dolorosi, ma che sono sempre passaggi verso la risurrezione. Ed è questo cristianesimo vivo che i giovani scoprono a Taizé.
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