sabato 22 ottobre 2022
Gadiel Gaj Taché cerca di raccontare la perdita del fratello Stefano, di appena due anni, vittima il 9 ottobre 1982 dell’attentato alla Sinagoga di Roma
Stefano e Gadiel Gaj Taché

Stefano e Gadiel Gaj Taché - archivio

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La perdita di un familiare è sempre lacerante. Gadiel Gaj Taché cerca di raccontare quella del fratello Stefano, di appena due anni, vittima il 9 ottobre 1982 dell’attentato alla Sinagoga di Roma. Lui di anni ne aveva quattro e alle 11,50 fu gravemente ferito con i suoi genitori e altre 37 persone da bombe a mano e raffiche di mitra sparate da un commando di terroristi palestinesi. «Quante cose non ti ho detto fratello mio. Poche corse e pochi giochi prima dell’oblio », scrive nei versi struggenti che aprono il volume Il silenzio che urla, edito da Giuntina. Sono passati 40 anni da quel giorno, eppure la ferita non si è mai rimarginata. «Ho conosciuto la morte e il dolore, sia fisico che psicologico, causati dalla vile brutalità del terrorismo», racconta. Della narrazione di quel giorno, e di come i segni della violenza producano solchi indelebili capaci di modificare per sempre il corso di un’esistenza, Gaj Taché ha deciso di fare 'una missione', non solo per mantenere vivo il ricordo del piccolo Stefano, ma soprattutto «per impedire che l’attentato alla Sinagoga venga dimenticato». Solo nel 2012, infatti, suo fratello è stato inserito nella lista delle vittime italiane del terrorismo dalla Presidenza della Repubblica: 30 anni dopo la tragedia e dopo un’intervista rilasciata l’anno prima da Gadiel, fortemente contrariato per l’assenza di Stefano in quell’elenco. «Fu un gesto simbolico molto importante per me e per tutta la comunità ebraica di Roma. Naturalmente, questo atto, questa importante correzione storica, non ha pacificato il mio animo, non ha moderato il lutto, né ha calmato il senso di mortificazione per la mancata giustizia, per il fatto che nessuno è stato punito per il male che ha inferto alla mia famiglia e a tante altre persone. E per il fatto che tante, troppe domande su cosa sia successo il giorno dell’attentato siano rimaste insolute', osserva l’autore, che si è tuffato per anni in lunghe e approfondite ricerche d’archivio per far luce su quell’evento luttuoso e ancora oscuro. E il rischio dell’oblio storico rimane, mentre molto resta da fare per arginare l’antisemitismo. Dopo quattro decenni, dunque, nessuna verità e nessuna giustizia su quel giorno di sole devastato dalle bombe: «Era Shabbat ed era la festa di Sheminì ’Atzeret, la festa che segue subito quella di Sukkòt (la festa delle Capanne). Nella tradizione ebraica, in quella giornata i rabbini usano dare la benedizione a tutti i bambini, quindi era importante per la mia famiglia essere presenti», ricorda nitidamente Taché. Che nella fede non trova ancora risposte e non riesce a darsi «pace. Perché Stefano, invece, fu sacrificato in quel modo? E perché non io? Perché? A me e ai miei genitori toccò forse il destino più duro e difficile da sopportare. Quello di essere rimasti con un vuoto incolmabile e un profondo senso di colpa. Io fui fortunato. Anzi miracolato. Le schegge di una bomba che mi fu lanciata da pochi passi mi investirono in pieno colpendomi in tutto il corpo, dalla testa ai piedi, nel vero senso della parola. Ero in condizioni disperate». Una luce di speranza e gratitudine? Il rapporto con i genitori, in particolare con la mamma: «L’unica cosa che mantenne in vita mia madre fu la missione di far crescere l’unico figlio che le era rimasto in modo sano e permettergli di vivere un’esistenza più normale possibile. Se oggi posso considerarmi un uomo equilibrato, e con dei valori forti e sani, lo devo senz’altro al grande lavoro che svolse da quel giorno in poi sacrificando spesso anche la sua stessa vita».

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