martedì 26 dicembre 2023
In "The Waste Land" il grande poeta ha dato vita a un capolavoro composto di frammenti: un'estetica che spetta all'uomo ricomporre in poesia. È lo stesso processo della IA?
T.S. Eliot nel 1956

T.S. Eliot nel 1956 - Archivio Avvenire

COMMENTA E CONDIVIDI

The Waste Land (in italiano La terra desolata) è il battesimo estetico di Thomas Stearns Eliot. Da par mio ho sempre proceduto per frammenti, emersioni autonome una dall’altra, libero da ogni accezione convenzionale di consequenzialità e coerenza e dallo stesso concetto di necessità formale di un qualche tipo cui sono costituzionalmente refrattario, geneticamente incompatibile con la ripetizione dello schema la cui divinità è una idea di elezione artificiosa e asettica che marca il territorio di presunti privilegi sociali. Il frammento porta lo stigma del giudizio, vulnus della forma da redimere, tanto che se si immagina di ricomporlo si sente la necessità di farlo con collanti dorati come se il metallo prezioso fosse in grado di riscattare il peccato originale della rottura, riportando tutto alla armonia di un malinteso senso etico dell’estetica. Per definizione non basta a se stesso, il frammento, intralcio residuale che irrita e a volte perfino spaventa il dogma dell’ortodossia. La frammentazione viene quasi sempre accostata a un morbo che insidia la presunta integrità della ispirazione artistica e mette in crisi idee di coerenza intese come ripetizione ad libitum di pattern frequentati e tranquillizzanti. Dall’arte, questi, dovrebbero essere importunati, destabilizzati, provocati di provocazione vera, non le finzioni radical chic di un’arte ideologica che è tutto un altro mestiere dalla poesia. Il fare artistico non ha necessità di giustificazione alcuna, indipendentemente da cosa questo possa significare per ognuno. Il principio di giustificazione, del resto, denuncia una natura soggetta alle leggi che altri hanno scritto per noi, tradimenti della imprevedibilità sacra insita nell’immaginare processi formali figli di visioni autentiche, quindi personali.

Pensando al mio Tapeland per il Museo Michetti di Francavilla (un primo tentativo di discorso sui frammenti) ho scoperto molte affinità con la poetica di T.S.Eliot in The Waste Land. Capolavoro assoluto che nulla ha da invidiare al Joyce di Finnegans Wake (curiosamente ripreso di recente al White Cube di Londra da Anselm Kiefer) e che è benedetto da una sintesi folgorante e uno sprezzo assoluto per le convenzioni. Benedetto da quella che forse, per l’autore completamente immerso nelle contingenze della storia, era una somma di maledizioni. Il congegno estetico con le sue alchimie misteriose può ribaltare la valenza etica delle esperienze. La distruzione e suoi sottoprodotti si possono rivelare via di salvezza che non teme i traumi e le maceria esistenziali, li trasforma nel riscatto di speranze inedite e futuri fertili. The Waste Land è un battesimo laico e profetico che lava la colpa del frammento e ne dichiara la filiazione ineludibile dal progetto unitario. Le rovine incarnano la natura rigeneratrice di reinvenzioni sempre nuove, evocazioni di un racconto inedito che si tiene insieme per il tempo di una lettura, adiacente a infiniti altri possibili, in cui le parti sono ricombinate a formare, pro tempore, un corpo unico. L’esercizio di lettura cui mi riferisco è una pratica attiva, fatica di riconoscimento e decodifica, sempre possibile rinunciando a schemi preordinati, che siano propri o imposti. Serve uno spirito libero. L’estetica è dinamica, ogni cristallizzazione ne rappresenta l’evoluzione ideologica e moralista su cui si costruiscono fortune e in cui muore definitivamente la velleità poetica.

Nel suo gran finale The Waste Land, coerente di eterogeneità inaccostabili, propone cinque lingue in poche righe, dal Purgatorio di “Poi s’ascose nel foco” che gli affina alla conclusione dal sanscrito formale in stile Upanishad “Shantih shantih shantih”. Cinque lingue da altrettanti testi estremamente ingombranti per valore e struttura. Il meccanismo è di una semplicità disarmante e decisamente temeraria destinata a farsi gioco di ogni pedanteria citazionista: quando evoca Baudelaire, Eliot lo fa imponendo un incipit perentorio al verso: “You!” e così facendo se ne appropria, Baudelaire diventa Eliot in un gioco di ombre linguistiche degno del migliore Borges. A dire il vero la prima lettura di The Waste Land mi aveva lasciato interdetto; quel mondo risultava estraneo e poco confortevole se approcciato attraverso categorie consuete. La perplessità è durata poco, la ricognizione costante, quasi la brama dello scarto estetico che frequento mi ha reso la lettura facile. Non si tratta di ricombinare proposizioni parassitandone il valore. T.S. Eliot ha individuato il progetto aperto di una estetica suggerita dai frammenti che sta a noi ricomporre in poesia. La sua intuizione individua perfettamente i nuovi fronti del creare possibile che si profilano all’orizzonte IA. Le integrità autorali, minate alla radice dal mondo digitale, sono definitivamente salve perché in grado di rigenerarsi continuamente dalle proprie ceneri (leggi frammenti) come la fenice. The Waste Land, oltre a essere una opera epocale, è anche il breviario di un ventaglio metodologico in grado riscattare il senso di inferiorità e inadeguatezza che è sempre più diffuso verso ciò che abbiamo inventato e continuiamo ad alimentare con i nostri stessi contenuti, le intelligenze artificiali. Rinunciando alla persistenza della forma, del resto utopica, a favore di una sua instancabile reinvenzione possiamo recuperare una rinnovata forza del significato in infinite particelle liberate dall’algoritmo dove credevamo potesse perdersi. La circolarità dell’uomo primitivo con la natura e i suoi strumenti è ancora lì, estesa per tangenze imperscrutabili, infiniti che alla fine tornano all’unico referente vero, noi.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI