mercoledì 12 giugno 2019
Grande prosa fino al 14 luglio, con tre prime assolute a inaugurare la grande kermesse partenopea. Il drammaturgo Enzo Moscato presenta la toccante “Ronda degli ammoniti” sulla paura della guerra.
Sul Napoli Teatro i fantasmi e i drammi dei bambini
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Forse aveva ragione Eduardo: a Napoli i fantasmi esistono e ci parlano. Sono bambini che hanno il terrore di partire in guerra come soldati e adulti che la guerra della vita l’hanno persa. E poi ci sono padri assenti come entità astratte, divisi dai figli da enormi silenzi, e sacerdoti che benedicono con pietà le miserie del mondo. Si riflette sulla vita e sulla morte nel denso avvio del Napoli Teatro Festival appena inaugurato da tre prime assolute, per portare in scena fino al 14 luglio oltre 150 spettacoli fra prosa italiana e internazionale, danza, cinema e, per la prima volta, anche teatro ragazzi. La missione del direttore artistico del Festival Ruggero Cappuccio è rivendicare «la funzione sociale del teatro» non in termini astratti, ma in ragione di prezzi popolari e di pensiero capace di formare le coscienze. Che sia il lucido delirio del disperato tossicomane Riboldi Gino che In exitu grida pentito a Dio gli errori della sua vita nella straziante ed epica lingua di Giovanni Testori con un superlativo Roberto Latini mattatore e regista (produzione Compagnia Lombardi- Tiezzi). O che sia il serrato match tra un padre scrittore famoso e i figli schiacciati dalla sua ombra ne Il silenzio grande dove tra risate, lacrime e colpi di scena il romanziere di successo Maurizio De Giovanni fa il suo debutto teatrale accompagnato dai suoi Bastardi di Pizzofalcone, Alessandro Gassmann alla regia e Massimiliano Gallo, impagabile protagonista.

I bambini vittime dei conflitti sono invece le “creature” che Enzo Moscato, uno dei capostipiti della nuova drammaturgia napoletana, vorrebbe proteggere con la sua affettuosa preghiera corale Ronda degli ammoniti, coprodotta dalla sua compagnia e dalla Fondazione Campania dei Festival. Uno spettacolo concentrato e metafisico ambientato nella scuola elementare “Emanuele Gianturco” ai Quartieri spagnoli, la stessa frequentata da Moscato negli anni ’50, dove si narrava di misteriosi suicidi di bambini. Moscato immagina che questi avvengano nel 1917: alcuni bambini di terza si gettano nella tromba delle scale per il timore di crescere ed essere mandati a morire al fronte come i loro padri o fratelli maggiori. E sovrappone gli eventi ad una giornata normale di una classe elementare del 1898, quella che nove anni dopo darà i suoi figli alla patria a prezzo di dolore e inutile sangue sparso: i fantasmi degli ex allievi caduti in battaglia tornano, stracciati, sanguinanti e bendati, a sedersi sui banchi accanto ai loro compagni. E stringe il cuore vedere materializzarsi il destino spezzato dello studioso allievo Gavino o quello del povero Savignano, già sfortunato orfano di una famiglia che vive in una topaia. «Bambini che di botto diventano adulti e adulti che, alla stessa identica maniera, ridiventano bambini» premette entrando in scena padre Singapore (lo stesso Moscato), un asciutto e anziano gesuita che denuncia il terrore dei bambini «di crescere e finire sottoterra per i cinici decreti burocratici di altre e indifferenti volontà. Che siano quelle dei governanti, degli affaristi o dei costruttori e trafficanti d’armi» a cui poco importa di queste anime innocenti. Un j’accuse duro e diretto, ma capace anche di fare sorridere nella caciara di questo “piccolo coro” di scugnizzi poverissimi e vitali, tenuto a stento a bada dal bonario maestro Michele Ambrosini (un umanissimo Benedetto Casillo).

«Io ho raccontato parzialmente la mia esperienza di scolaro nel mio libro di racconti del 2011 Gli anni piccoli – ci spiega il 71enne Enzo Moscato –. Narra la mia infanzia nei Quartieri Spagnoli, da cui andai via negli anni ’60 e fra i cui vicoli deliberatamente sono tornato ad abitare 15 anni fa». L’autore quindi ora torna nella scuola “Emanuele Gianturco”, che ancora esiste, ricordando una leggenda che circolava quando era piccolo. «Negli anni ’50 quella scuola, che aveva anche un aspetto oscuro gotico all’interno, aveva una brutta nomea, si parlava di bambini caduti nella tromba delle scale, noi eravamo impauriti aggiunge. Dalle mie ricerche pare sia avvenuto un fatto del genere negli anni del fascismo, intorno a fine anni ’20. Nel lavoro immagino che i fatti accadano nel 1917, l’anno della sconfitta di Caporetto, quando l’Italia sta per dissolversi come nazione». I bambini seduti nei loro banchi (interpretati da un bel cast di giovani) leggono il Libro Cuore, cantano La canzone del Piave, si scatenano insieme al maestro in un dolceamaro girotondo sulle note de La ronda di Milly. «Il maestro Ambrosini, nella sua combinazione di severità e di gioco, è disegnato sul mio vero maestro – svela Moscato –. Persone per le quali insegnare era una vocazione. Per me, bambino dei vicoli, il maestro è stato un genitore. Noi eravamo sette fratelli, i genitori non avevano tempo di seguirci, ed è grazie a lui che ho potuto studiare, mentre gli altri li hanno mandati a lavorare da piccoli. Comunque allora, quelli che non concludevano il ciclo scolastico, si acculturavano da soli. Oggi invece i ragazzini ostentano l’ignoranza, è una barbarie». Qui parla anche l’esperienza di Enzo Moscato che è stato professore di filosofia nelle superiori per dieci anni. La guerra oggi è nei vicoli? «Il quartiere è molto cambiato, agli abitanti originari si sono sommati molti migranti da Sri Lanka e Filippine. Le famiglie stesse non hanno più l’unità che garantiva una educazione. Ed ora vedo tanta microcriminalità. È dura – aggiunge sconsolato –, perché sono quartieri dimenticati. Ma è così in tutti i quartieri disagiati d’Italia, solo che qui si vede di più».

Non resta, nel finale della Ronda degli ammoniti (i ragazzini puniti dalla storia), che recitare una preghiera. Il gesuita riappare recitando il De profundis per quelli, scopriamo nel percorso, essere stati i suoi compagni di classe. L’irrequieto Negrini, sempre sgridato dal maestro, da adulto si è fatto prete. «La mia infanzia è stata la parrocchia – aggiunge l’autore –. Il prete del quartiere aveva una funzione educativa molto precisa e a me piaceva molto il catechismo. Inoltre ho avuto diversi compagni di scuola che sono diventati preti». Le riflessioni di Moscato sulla morte affondano quindi nelle radici nel sacro. «Se non avessi la fede dentro, non potrei affrontare serenamente questo tema – confessa –. Siamo esseri composti di divinità e desiderio. Vorrei continuare ad interrogarmi nel mio lavoro su questo discorso della vita, della morte, della storia».

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