giovedì 8 ottobre 2015
​La città lituana di Kaunas ha ricordato in questi giorni il console giapponese che nell'estate del 1940 riuscì a salvare 6mila ebrei dalla deportazione.
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«ECCO PERCHÉ L’HO FATTO» Il Comitato nazionale giapponese per l’Unesco ha annunciato di volere chiedere il riconoscimento ufficiale della documentazione che accerta l’attività umanitaria di Sugihara, inclusi i visti emessi e le comunicazioni con il ministero degli Esteri. Una mossa che il sindaco della sua città natale Yaotsu, ha indicato come utile a «ricordare ai giovani la crudeltà della guerra e il valore della vita attraverso l’opera umanitaria di Sugihara». Iniziative che si scontrano però con la disarmante semplicità di pensiero del protagonista: «So che qualcuno avrà qualcosa da ridire su di me in futuro, ma penso che fosse la cosa giusta da fare. Non c’è nulla di male nel salvare la vita a tanti individui», ha scritto nelle memorie pubblicate nel 1983. «Vorreste conoscere le mie ragioni, vero? Bene, è il sentimento che ciascuno dovrebbe avere trovandosi faccia a faccia con profughi che implorano con le lacrime agli occhi. Non puoi evitare di simpatizzare con loro». Insospettato, tra le pieghe di una storia perlopiù connessa con nazionalismo, militarismo e aggressione verso Paesi vicini, il Giappone ha saputo esprimere anche una figura di filantropo coraggioso e coerente come Chiune Sugihara, viceconsole in Lituania nelle prime fasi del conflitto mondiale. Una sorta di Schindler giapponese al quale devono la vita migliaia di ebrei. Sugihara era arrivato nella sua destinazione lituana nell’agosto 1939, poco prima dell’invasione nazista della Polonia. L’8 luglio 1940, racconta Sugihara nelle sue memorie, lui e la moglie furono sconvolti dalla vista di decine di ebrei polacchi, lituani e di altre nazionalità che premevano ai cancelli del consolato di Kaunas in cui aveva anche la sua residenza. Uomini e donne che avendo trovato rifugio nel Paese baltico, tra i pochi ancora aperti all’accoglienza per gli ebrei in fuga, speravano di ottenere il visto per il Giappone e sfuggire così alla tirannia che temevano si sarebbe presto impossessata della minuscola repubblica. Il 39enne Sugihara prese la sua decisione: la più importante e controcorrente di una vita di carriera diplomatica vissuta più nel rispetto dell’onore che delle direttive, e in pochi giorni emise centinaia di visti, fino a quando, come scrisse nelle sue memorie «le mie dita ebbero i calli e ogni giuntura dal polso alla spalla divenne dolente ». Il ministero degli Esteri, a Tokyo, preso alla sprovvista, impiegò tempo prima di negare l’autorizzazione a emettere visti di transito che avrebbero permesso, passando da Tokyo, di raggiungere la salvezza in Paesi aperti all’accoglienza. Sugihara poté così proseguire approfittando della mancanza di direttive precise. Con chiaro imbarazzo per il ministro Yosuke Matsuoka, che aveva più volte dichiarato fedeltà alla nazismo, ma anche la volontà di non perseguire alcun ebreo sul territorio nipponico o altrove. Il 3 agosto la Lituania, invasa il 14 giugno, venne annessa dai sovietici e al console giapponese, come ai colleghi, vennero date tre settimane per lasciare il Paese. A seguito dell’ondata di arresti attuata dalla polizia segreta sovietica dopo l’invasione, e con l’Europa orientale ormai incendiata dal conflitto, unica via di fuga per ebrei e perseguitati restava quella che portava a Tokyo passando dall’Oriente sovietico. Di conseguenza, anche dopo la scadenza e nonostante la proibizione sovietica, Sugihara continuò a emettere quelli che sarebbero stati ricordati come "visti per la vita" a un ritmo forsennato (saranno 2.140 in tutto), nella sua stanza dell’Hotel Metropolis, fino al 4 settembre, quando dovette lasciare il Paese diretto a Berlino. Sarebbe rientrato in Giappone solo nel 1947, dopo una peregrinazione che lo portò a Praga e poi a Bucarest, prima di essere catturato dai sovietici e detenuto con la famiglia per 18 mesi. Pensionato dal suo ministero, Sugihara, che parlava un russo fluente (aveva imparato la lingua frequentando gli immigrati russi nei suoi 16 anni di permanenza a Harbin, in Manciuria, prima e dopo l’occupazione giapponese nel 1931), si reinventò una vita come consulente per iniziative commerciali, incluso un soggiorno a Mosca dal 1960 al 1975. L’anno prima della morte nel 1986, le autorità del memoriale dell’Olocausto di Yad Vashem gli riconobbero il ruolo di Giusto per la sua opera umanita- ria in Lituania che portò complessivamente a salvare forse 6.000 individui. Si calcola che furono 190 mila gli ebrei vittime dell’Olocausto nel piccolo Paese baltico, il 90 per cento del totale stimato prima della guerra. Preso alla sprovvista il ministro degli Esteri nipponico impiegò tempo prima di negare le autorizzazioni: il diplomatico ne approfittò. Lo Yad Vashem l’ha posto fra i Giusti nel 1986 Nei giorni scorsi, a ricordo dell’ultimo visto emesso 75 anni fa, due targhe trilingui (lituano, giapponese, inglese) sono state inaugurate a Kaunas in suo onore. Una al Metropolis Hotel e l’altra alla stazione ferroviaria. Un omaggio rafforzato dalla presenza dell’ambasciatore giapponese, a conferma che il ruolo di Sugihara (riabilitato nel 2000 con una lettera di scuse dell’allora ministro degli Esteri Yohei Kono alla famiglia) rimane di esempio a una società delle regole che va comprendendo con gradualità il ruolo dell’individualità e dell’indipendenza di pensiero. Un’indipendenza che distinse Chunie Sugihara anche nella funzione di console: all’ombra dei servizi segreti imperiali che lo utilizzarono per raccogliere informazioni sui movimenti di truppe sovietiche e tedesche nell’area del Baltico, fu anche attivo nei rapporti con la diaspora polacca in Lituania ai cui esponenti pure garantì visti di transito verso il suo lontano arcipelago e, per molti, una nuova vita.
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