venerdì 22 gennaio 2016
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In principio furono i graffiti delle caverne di Altamira, di Lescaux e Pech Merle. E sembrerà strano, ma è andando con la memoria a quei segni e alle figure dei primordi artistici della preistoria che si può comprendere a pieno il provocante graffito su pietra collocato «abusivamente» al British Museum - nel 2005 - da uno dei più noti graffitari contemporanei, Banksy. I primi writers invece, gli antesignani degli imbrattatori “illegali” di muri metropolitani si possono ritrovare a Roma, nella Domus Tiberiana e nel messaggio romantico e passionale lasciato da un anonimo che in latino scriveva: «Vis nulla est animi, non somnus claudit ocellos, noctes atque dies aestuat omnes amor» («L’animo non ha forza, il sonno non chiude gli occhi, e lungo tutti i giorni e le notti l’amore avvampa»). La parola scritta entrò dentro l’immagine, negli affreschi «polimaterici medioevali » di Simone Martini e in tanti altri esempi della pittura rinascimentale e del ’500.  «Specialmente laddove creati in spazi pubblici, questi sono gli antecedenti più ovvi della pittura murale contemporanea pur se nella più totale differenza di pubblico, soggetto e funzione», spiega l’esperto Duccio Dogheria passando in rassegna i prodromi della cromatica, poliedrica e affascinante Street Art. Storia e controstoria, tecniche e protagonisti (Giunti. Pagine 250. Euro 39,00) titolo omonimo della sua poderosa antologia illustrata. Un viaggio intorno a questo variegato pianeta creativo, una jungla per certi versi, le cui radici comunque affondano nel ’900 e nel muralismo latino-americano. Nessun grido fu più rivoluzionario di quello dei muri di Città del Messico. Il muralismo politico della fine degli anni Venti-Trenta a firma della triade civile Orozco, Rivera e Siqueiros. In Europa più o meno nello stesso periodo sbocciò il muralismo d’autore francese (Dufy, Leger e la Delaunay), mentre da noi impazzava quello celebrativo del regime fascista, incarnato dai futuristi raccolti sotto l’ala protettiva di Marinetti e nelle opere monumentali dei vari Sironi, Maccari, Funi, Terragni e Libera. Niente di più distante dalla libertà d’azione e lo spirito trasgressivo dei primi writing, emersi negli anni Sessanta ai margini della Grande Mela. Il primo significativo laboratorio a cielo aperto della Street Art aveva la sua sede nella suburbia di New York, in South Bronx. È lì che fecero la loro apparizione le Tagsle firme criptiche sui muri, nomi in codice disseminati ovunque, da Papo 184 a Taki 183. Giovani pionieri armati impropriamente e per questo perseguiti dalla legge, di marker - il pennarello indelebile - e bomboletta spray. Operatori socioculturali della nascente underground, tribù intente a quello che per la pubblica opinione dell’epoca era solo un fenomeno di «imbrattamento », degenerato negli anni Settanta nel selvaggio wild stile. «Graffiti o aerosol art, quando le ricerche formali superano i caratteri alfabetici per abbracciare iconografie più complesse, meno legate alla semiotica e più al divenire delle arti», continua Dogheria. L’evoluzione della specie dei writers americani, con la conseguente reciproca contaminazione degli innumerevoli movimenti europei e africani (Dogheria viaggia da Berlino a San Paolo, da Londra fino al Senegal), aprirà il sipario sui Masterpieces ovvero «i pezzi capolavoro» che non rientrano più nella zona off limits del vandalismo, ma nel dorato mondo dell’arte e nelle attuali quotazioni d’asta che sfiorano il milione di dollari per uno “strappo” di Banksy. Il fenomeno commerciale ebbe il suo incipit con lo “United Graffiti Artists”, anno 1972, i graffiti dei muri newyorkesi fanno il loro ingresso trionfale nelle gallerie. Le mille luci di New York si accesero sulla nuova avanguardia grazie al testo miliare, The faith of graffiti (1974) scritto da uno degli epigoni della beat generation, Norman Mailer (con l’apparato fotografico di Jon Naar) il quale tracciò il primo censimento dei 630 writers newyorkesi. L’artista austriaco Stefan Eins completò l’opera di divulgazione di massa della street culture strappando a sua volta i graffiti dalle strade per metterli in mostra nel suo “Fashion Moda”, un magazzino industriale abbandonato nel sempre più nevralgico South Bronx. Lì, seguendo l’onda ribelle approdarono i due geni-writers Keith Haring (che nella canonica di Sant’Antonio a Pisa ha lasciato un murale capolavoro) e Jean-Michel Basquiat, i cui volti continuano a dialogare con i passanti nel dipinto di Eduardo Kobra. L’artista brasiliano partendo da San Paolo ha disseminato di arlecchini i muri delle capitali di mezzo mondo, dove si ritrovano anche le sue effigi di denuncia politica, oltre ai ritratti spirituali di Madre Teresa di Calcutta e di papa Wojtyla. Spiritualità che ha trovato un suo narratore figurativo nel romano, a dispetto del nome d’arte ebraico, Mr. Klevra, famoso per la Madonna in piedi sulla luna nella sua mistica Sancta Sanctroom. Sulla scia dei grandi (gli italiani Blu, Sten&Lex, Ericailcane) e del suo ispiratore agli esordi, omino71, Mr. Klevra porta avanti una poetica che accetta di buon grado gli interventi di “recupero estetico” sempre più diffusi, da San Francisco a Berlino passando per la periferia romana di Tor Marancia, fino al porto di Catania (in cui ha appena lasciato il suo segno il portoghese Vhils), ma si mantiene al riparo dall’inflazionamento modaiolo per cui dice: «Tutti ormai si sentono street artist». Non tutti invece possono dirsi graffitari di talento e writers ispirati come il milanese Ivan, il cui monito rimane forse il miglior manifesto della street art cul: «Chi getta semi al vento farà fiorire il cielo».
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