mercoledì 1 giugno 2022
Fra pietas e vergogna, abisso e risurrezione, le vicende di persone e cose che hanno radici nei cuori, guardando il futuro e la nostra storia. I racconti di Elena Loewenthal
Cedola emessa dal S. Monte di Pieta' di Roma, 1792

Cedola emessa dal S. Monte di Pieta' di Roma, 1792 - WikiCommons

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Il libro di Elena Loewenthal, Monte dei Pegni. Un anticipo dal futuro (La Nave di Teseo, pagine 160, euro 16), è una piacevole, profonda e ricca lettura. È una raccolta di brevi racconti, creazioni letterarie che, come spiega l’autrice, partono da alcuni fatti stilizzati realmente accaduti. Di fronte a un’opera narrativa, non è mai un buon esercizio chiedersi se i fatti narrati siano reali, perché è la narrazione a rendere reali i fatti: per questo ogni narrazione è creazione di realtà, non di fiction. Ciò che accomuna i racconti brevi è il loro ambiente: sono storie costruite attorno a un Monte dei pegni, quindi prestiti di denaro in cambio di deposito di cose, di oggetti. Storie di oggi, nostre contemporanee, ma dal sapore antico, lo stesso sapore e colore di un film neorealista in bianco e nero o, per chi ne ha sentito parlare, dei vecchi banchi ebrei o cristiani tra Medioevo e Modernità. Storie di cose e di persone, dove non è facile capire se parlano più e meglio le cose o le persone perché, in realtà, parlano assieme, sono storie di dialoghi, e le parole più belle spesso sono quelle mute degli oggetti: «Il Monte dei pegni è un repertorio inesauribile di storie». Elena Loewenthal è nota come scrittrice e ottima traduttrice di letteratura ebraica, con quella capacità narrativa di far vedere le cose che narra che forse solo gli ebrei possiedono, almeno in una misura sovrabbondante. E così, in questo testo, ci fa vedere Mario, fotografo stagionale, che impegnava la macchina fotografica e l’attrezzatura d’inverno e la riscattava in primavera con i primi acconti sui servizi matrimoniali. Ci racconta delle pellicce della bella Milly, «che si chiamava Giuseppe», la storia felice di Giorgio con la sua fidanzata Evelina. Lo vediamo mentre Giorgio porta al Monte l’orologio della nonna per avere in cambio qualcosa per sopravvivere. Era la sua unica eredità che la mamma gli aveva infilato nella tasca della giacca mentre scappava di casa per poter fare il poeta, e che un giorno finisce per vincere il Premio Strega: «L’orologio e il Monte dei pegni gli avevano salvato la vita. A lui, a Evelina, alla sua poesia». Molto bello l’episodio di Viola, la flautista. La madre porta al Monte il flauto d’oro del nonno, dicendole «tuo nonno sarebbe contento». Lo fa per poterle pagare il master in Canada. Risparmiando mese dopo mese dalla pensione, alla fine il flauto d’oro, anche questo, sarà riscattato. Viola torna dal Cana- da: «Lasciamola ancora un momento con il flauto d’oro», dicono i suoi genitori: «La trovarono proprio lì, davanti alla custodia di panno nero aperta, nel buio del salotto spezzato dalla luce d’oro del flauto, che pareva un piccolo solo precipitato lì, dentro casa loro, a salutare il ritorno di Viola e del flauto d’oro. Per sempre». Storie di riscatti, storie di oggetti morti nel deposito del Monte e poi risorti alla fine di storie d’amore - anche i nostri oggetti amati entrano nelle nostre resurrezioni, dopo essere saliti sui nostri golgota. Storie di poveri, di molte donne e della loro tipica pietas, madri e figlie. Poveri d’oggi, ai quali non manca tutto, manca qualcosa, ma un qualcosa che può rendere impossibile svolgere la vita che desiderano, una impossibilità che è sempre la prima e più vera definizione di cosa sia la povertà. Molta povertà, molta vergogna. Perché la povertà, ogni povertà, prima di essere intesa oggi come colpa (attraverso la meritocrazia), è sempre stata una vergogna. La povertà si vede, è faccenda di occhi. La vediamo noi e la vedono gli altri. Non si esce da nessuna povertà senza attraversare l’onta del mare della vergogna, se riusciamo senza restare sommersi durante l’attraversamento: «Il Monte dei Pegni soltanto il nome fa vergognare un po’, no? Ci si sente, come dire, dei poveracci, dei disperati». Essere poveri spesso è brutto, essere considerati, dagli altri e da noi stessi, poveracci è bruttissimo. Un piccolo libro a tratti capace di commuovere profondamente. Peccato per le sue due introduzioni. Quella di Luca Ricolfi fa quello che chi accetta di scrivere una prefazione a un libro di un altro o di un’altra non dovrebbe mai fare: parlare dei propri libri, perché oltre a non aggiungere nulla al libro che presenta, impoverisce anche il proprio libro. L’introduzione di Gianluca Garbi, amministratore delegato del gruppo Banca Sistema, è invece un festival di errori e di imprecisioni storiche. Diversamente da quanto dice l’Amministratore, i banchi dei pegni non li hanno inventati gli ebrei, c’erano già molto prima, gestiti da cristiani, quasi sempre su condotta comunale. Il prestito su pegno era precedente sia ai Monti di pietà dei francescani sia a quelli degli ebrei, perché il pegno era un istituto vigente nel diritto civile medioevale che sopravviveva accanto a quello canonico - va sempre tenuto presente che l’usura era vietata in genere dal diritto canonico, quindi per ecclesiastici, molto meno dal diritto civile e dagli statuti comunali. Diversamente da quanto afferma Garbi, i Concili avevano condannato (canonicamente) l’usura già con l’inizio del secondo millennio, secoli prima il concilio Lateranense del 1515, che è importante invece per a- ver ammesso il tasso d’interesse nei Monti di pietà, dove sulla natura onerosa del prestito era in corso da mezzo secolo una grande polemica, già a partire dal primo monte di Ascoli del 1458 (non quello di Perugia, un’antica tesi ripetuta anche da Garbi). Inoltre, l’impegnare oggetti era prassi molto antica, perché in un’economia non monetaria le cose erano mezzi di pagamento a disposizione della gente, e non solo dei poveri. Anche nei banchi che prestavano a pegno si realizzava una sorta di meticciato tra prestito e vendita: la somma era sì un acconto in vista di una restituzione del bene impegnato o investito, ma era anche una sorta di vendita di quel bene, una permuta cosa versus moneta. Anche i monasteri conoscevano varie forme di prestito, e, più tardi, nota è la 'banca multinazionale dei Templari', che operava anche il prestito su pegno. Nei secoli XII-XVI il prestito su pegno divenne una pratica molto diffusa in tutta Europa, e gli italiani (Lombardi, Toscani) erano i maestri. Vi ricorrevano tutti, ricchi soprattutto, in un mondo con molta ricchezza mobile e poco denaro in circolazione. Il diritto romano conosceva il prestito su pegno, che era, insieme all’ipoteca e alla fideiussione, il principale mezzo di garanzia. Durante il primo millennio anche le leggi longobarde e dopo il VI secolo quelle visigote, nelle quali erano presenti vestigia di diritto romano (Codice di Giustiniano), conoscevano il prestito su pegno (cf. il cosiddetto Formulario di Angers), dove ufficialmente non si menzionavano interessi ma, di fatto, erano chiesti in contratti collaterali e in genere tenuti segreti. Nei secoli delle invasioni barbariche tutte le pratiche commerciali e finanziarie ebbero uno stallo, ma appena la vita sociale ripartì col nuovo millennio riprende anche l’attività di prestito su pegno, svolta essenzialmente da lombardi, toscani e dopo il duecento dagli ebrei. Si ha traccia da un Monte dei pegni a Frisigen, Baviera, nel 1198, quindi a Salins (Francia), nel 1356 e nel 1367, il vescovo Michele di Norbhburg, creò un fondo di mille marchi per prestiti su pegno ai poveri. Solo dal Trecento il prestito su pegno viene gestito prevalentemente, non esclusivamente, dagli ebrei, sebbene alcuni ebrei prestassero regolarmente e pubblicamente anche ai comuni e alle diocesi. Questa è la preistoria dei nostri monti dei pegni, ma queste cose l’amministratore Garbi non ce le dice nella sua introduzione che riduce il valore dell’ottimo libro della Loewenthal. Da qui una domanda più generale: a cosa servono le prefazioni quando l’autore è già di per sé un maestro, quando il libro sta benissimo in piedi da solo? Speriamo almeno a coprire i costi di edizione.

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