martedì 20 febbraio 2024
Nella “Storia culturale degli ebrei” di Stefani e Assael spingono a interrogarci su quanto c’è di ebraico nel dna dell'Occidente. Tratteggiando una storia in cui i compartimenti sono ben poco stagni
Tonino Negri, "Ararat"

Tonino Negri, "Ararat" - Cortesia dell'autora / Antonio Mazza

COMMENTA E CONDIVIDI

Anche chi, di cose ebraiche, ne sa o crede di saperne troverà nel volume Storia culturale degli ebrei (Il Mulino, pagine 336, euro 26,00) qualcosa da imparare. Si tratta, sì, di una rinarrazione di eventi antichi, biblici e non, e di personaggi, mnemonici o storici che siano, dall’epoca mitica dei patriarchi fino al tragico 7 ottobre dello scorso anno; ma essa è svolta sul filo delle sue continue rifrazioni in una miriade di interpretazioni scritte e orali. Si tratta poi di una rivisitazione così intrisa di consapevolezza ermeneutica da costringere, anche chi ne sa, a interrogarsi di nuovo: quanto c’è di non ebraico nelle fonti classiche del giudaismo? E quanto c’è di ebraico nel dna della cultura occidentale (oltre che nei cristianesimi) come debito non riconosciuto? A proposito di Heidegger, che censurò la radice ebraica della filosofia occidentale, si scrisse di un «debito impensato». Ora questo volume, scritto a quattro mani da Piero Stefani e Davide Assael, voci autorevoli dei due mondi, cattolico ed ebraico, ma accomunate da rigore metodologico e gusto per l’originalità comunicativa, intende rielaborare e riformulare esattamente quel debito mostrando come la cultura ebraica, anzi come le culture prodotte dagli ebrei in epoche e luoghi diversi, a cominciare dalla terra di Israele, siano da sempre frutto di incontro e di confronto con i vicini, e a volte anche di critica e di scontro, sulla base di scambi e di reciproci influssi e di complessi prestiti, soprattutto linguistici. Infatti dire cultura ebraica significa rimandare non solo a tradizioni e credenze ma soprattutto a traduzioni e ri-traduzioni, di idee e di testi, in continua tensione con una “lingua originaria” densa e polisemica, qual è l’ebraico, a cui rifarsi ogni volta daccapo per generare ex novo sensi e significati che permettano di vivere (e non solo sopravvivere) nella storia.

C’è dunque creatività in questa opera, a conferma della fecondità dell’approccio storiografico ispirato alla cosiddetta intellectual history, che come tale travalica gli specialismi delle diverse discipline cui attinge: al di là della storia generale, in queste pagine convergono l’esegesi biblica e le competenze midrashico-talmudiche, la storia dell’arte e la letteratura ellenistica e l’intero dispiegarsi del pensiero occidentale, inclusa ovviamente la teologia cristiana nelle sue variegate branche, fino a quegli Israeli studies diffusi negli States ma ancora tabù da noi. Un solo esempio, intrigante più che sfizioso, quello della morte di Caino, della cui genealogia molto dice il testo biblico tacendo però la sua fine, avvolta nel famoso divieto “nessuno tocchi Caino”. Ed ecco citata e spiegata una scena che si trova scolpita sulla facciata del Duomo di Modena, dove si racconta la fine del primo fratricida della storia umana, che muore colpito da una freccia scagliata da un uomo bendato. Chi fu il cieco vendicatore dei “sangui di Abele” (sangui, al plurale, dice il testo biblico in ebraico)? Ce lo rivela Rashi, il maggior commentatore del giudaismo vissuto nella Francia del XI secolo, il quale rimanda a un midrash già noto e usato dall’esegeta cristiano Rabano Mauro, abate di Fulda, un paio di secoli prima. Non svelo l’enigma, per non “spoilerare” il bel testo del duo Stefani-Assael, ricco di dettagli simili e tutti tesi a mostrare che né gli ebrei sono mai vissuti in comportimenti stagni rispetto al mondo che li circondava, né il giudaismo ha mai anatemizzato le altre culture, almeno fin quando non contraddicevano i fondamenti della loro fede o costringevano gli stessi ebrei ad abiurare tali fondamenti.

La storia dell’antigiudaismo a matrice teologica (ieri cristiana oggi islamica) è solo l’altra faccia, quella negativa e ahinoi spessissimo violenta, di tante vicende di positiva interazione e di scambi culturali, un antigiudaismo che la modernità europea ha trasformato in antisemitismo scientifico e geopolitico, con punte di parossismo in Russia (anche quella sovietica), e di paranoia in Germania, per divenire oggi un globale antisionismo. Il complottismo della polizia segreta zarista, l’ebraismo e la persecuzione di Trockij e le purghe anti-ebraiche di Stalin sono ben spiegati in uno dei capitoli più innovativi di questa storia delle culture ebraiche. Non meno significativo è che sia stato incluso un capitolo sulla storia dello stato di Israele, sulle guerre che lo hanno coinvolto dal ’48 ad oggi e persino sui suoi kibbutzim, tornati alla ribalta in questi giorni di infamia e di angoscia. Perché se c’è una chiave, che non è nuova ma che resta pur vera, in questa “storia”, è la continuità identitaria che fa degli ebrei, sin dalle loro origini, un unicum da molti punti di vista.

Certo, questo volume non spiega quel che Jacques Maritain chiamava “il mistero di Israele”; nondimeno illumina i contesti e le svolte e le crisi nelle quali l’identità ebraica è stata capace di rinnovarsi e adattarsi e al contempo di preservarsi, appunto, in quanto ebraica. Questione di fedeltà alla pratica religiosa (all’halakhà)? Forse. Attaccamento a una forma mentis allenata a discutere e altercare sui testi sacri (tipo Talmud)? Probabile. Coscienza di essere anche una nazione, un popolo diverso dagli altri, e del dovere di solidarietà? Come negarlo. E che basti l’avversione esterna, gli haters, a cementare un’identità è pure una vexata quaestio nei dibattiti intra-ebraici. Questa Storia culturale degli ebrei non risponderà a tali interrogativi secolari ma può aiutare a ripensarli e persino a suscitarne di nuovi, anche fuori dal mondo ebraico, magari tra chi cita le fonte ebraiche spesso senza vera cognizione di causa o le usa addirittura contro quella cultura e quel popolo che le ha generate e custodite per secoli. Stefano e Assael hanno scritto un buon testo, che non sacrifica alla divulgazione né il rigore storiografico né la fatica concettuale. E che scommette sull’intelligenza dei lettori.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: