venerdì 20 luglio 2018
La nuova edizione con testo a fronte consente di apprezzare l’influsso esercitato dall’opera non solo sul pensiero, ma anche sulla letteratura di tutto il Novecento
Stirner e le risonanze dell’Unico
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Ripubblicare oggi Der Einzige di Max Stirner (1844, ma con data 1845; il filosofo nasce a Bayreuth nel 1806 e muore a Berlino nel 1856) potrebbe parere un atto iterativo, visto che in traduzione italiana il volume, edito dapprima nel 1902, da Bocca, e poi nel 1911, con successive riprese dal 1921 sino al 2012 (e un’edizione Adelphi nel 2009, con un saggio di Roberto Calasso) è presenza ricorrente; autore caro tanto all’anarchismo che a una parte dei teorici del superominismo di derivazione nietzschiana, poiché – come ricorda Sossio Giametta nell’introduzione – «l’individuo, secondo Stirner, non ha compiti, vocazioni e missioni particolari, è bestimmungslos (senza determinazioni), berufslos (senza vocazioni) e gesetzlos (senza leggi); è perfetto in sé e non ha bisogno di diventare un “vero” uomo».

Ma il testo tedesco a fronte aiuta a meglio percepire l’eco che le celebri formule di Stirner (nella sua vivida prosa) hanno avuto non solo nella filosofia, ma nelle lettere del Novecento, anche in Italia. Prendiamo anche soltanto l’incipit del I capitolo del saggio: Ein Menschenleben (come non ricordare la Vita d’un uomo, sotto cui Ungaretti raccoglie le sue poesie?); e più ancora – nelle prime due righe – quel Wirrwarr («Dal momento in cui apre gli occhi alla luce del mondo, l’uomo cerca di trovare se stesso e di guadagnare se stesso emergendo dal suo Wirrwarr [confusione, guazzabuglio]»; come non osservare che Edoardo Sanguineti volle proprio quel titolo, Wirrwarr, per dare corso emblematico, dal 1972, alla sua poetica dell’“appercezione”? Ma allo Stirner caro alle avanguardie, s’accosta – in un inestricabile composto – anche il teorico ripreso dai propugnatori del potere come lotta e dominio; nella stessa pagina si legge infatti: « Siegen oder Unterliegen [ Vincere o soccombere], l’esito della lotta oscilla fra questi due casi alternativi. Il vincitore diventa il signore, il soccombente il suddito »: e certo il fascismo e il nazismo si incarnarono anche in quel lascito, che suscitava fastidio nei pensatori liberali come Benedetto Croce, il quale osservò lapidariamente (e Gramsci stesso annotò quel passo) che andava riconosciuta «nello Stirner, l’anima dei merciai» ( Conversazioni critiche, e Gramsci, Quaderno 10, § 31).

Ma L’unico non è soltanto questo: l’assillo principale dell’autore è il rimprovero di “parzialità” alle filosofie del tempo – dal liberalismo al comunismo – poiché nessuna di esse parla a nome dell’umanità tutta: «Chi è mai riuscito ad abbattere anche una sola barriera per tutti gli uomini? » (Parte I, II, § 3). Da qui, la parte più feconda della sua filosofia: nel prendere atto che nulla può essere fatto che sia utile per tutti, Stirner propone una «costruzione del sé» che tenga conto dei limiti, propri e altrui: «Per conseguenza non ti affaticare con le barriere degli altri; basta che tu abbatta le tue» (ibid.). Non si tratta tuttavia di un neoumanesimo, almeno nel senso che la autocostruzione dell’uomo ha insiti limiti anche più gravi che quelli posti dalla discendenza dell’uomo da Dio: «Ma abbiamo noi progredito rispetto all’inizio del cristianesimo? Allora dovevamo avere uno spirito divino, adesso uno umano; ma se quello divino non ci esauriva, come potrebbe quello umano esprimere interamente ciò che noi siamo? […] Anche se Dio ci ha tormentato, l’“uomo” è in grado di opprimerci in modo ancora più tormentoso» (Parte II. II). Ed è infatti ciò che si è prodotto con le dittature del XX secolo.

Quale è dunque la via di uscita che Stirner propone? In verità, non appare dal saggio una soluzione unica, ma una sorta di adesione al presente (criticato ogni Ideale) che coincide paradossalmente con il vocabolario della mistica del XVII secolo, alla maniera di Angelo Silesio: «Ben altra cosa è, se tu non corri dietro a un Ideale, come tua “destinazione”, ma ti dissolvi [ dich auflösest], come il tempo dissolve tutto. Il dissolvimento [ die Auflösung] non è la tua “destinazione” perché è il presente» (Parte II. II). In tale prospettiva, il fondamento non è tanto l’essere («Con l’essere non si giustifica niente. Il pensato è altrettanto del non-pensato, la pietra sulla strada è e anche la mia rappresentazione di essa è. L’una e l’altra sono soltanto in spazi diversi, quella nello spazio aereo, questa nella mia testa, in me: giacché io sono spazio come la strada»); ma piuttosto un “è ora” che ci rende reciprocamente “percettibili”: « Das Ich Mich “vernehmbar” mache, das allein ist “Vernunft” » [Il fatto che io mi renda “percepibile”, questo soltanto è “ragione”]. Così la conclusione, sulla scia di una poesia di Hermann Wilhelm Franz Ueltzen ( Ihr, 1797), più volte citata e resa celebre da Goethe: « Namen nennen Dich nicht » [Nessun nome ti nomina] trasforma il silesiano Innominabilis della mistica in un più romantico poema d’amore, un Umano, troppo umano che Nietzsche (1878) porterà ai suoi estremi e che qui – in Ueltzen – vibra di lontani, e insopprimibili, accenti lirici: « Wäre Herzensempfindung hörbar, / jeder Gedanke /Wäre dann Hymnus von dir » [Se la sensazione del cuore fosse udibile, / ogni pensiero / Sarebbe l’inno di te]. Così termina, con i versi di Ueltzen, un trattato che con i versi di Goethe era cominciato: «Io ho fondato la mia causa su nulla, / Evviva! » ( Vanitas! Vanitatum vanitas!, 1806; ed all’inizio del trattato: Ich hab’ mein’ sach’ auf Nichts gestellt).

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