giovedì 18 gennaio 2018
Alberto Casadei indaga sul rapporto fra le scienze cognitive e la creatività artistica, rileggendo l'ambito genetico in una chiave culturale e filosofica: «Non è un aspetto formale, ma sostanziale»
«Biologia e letteratura? È una questione di stile»
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Una ricognizione delle più importanti acquisizioni nell’ambito delle scienze cognitive in rapporto al problema della creatività artistica: da qui parte il nuovo libro di Alberto Casadei, professore di Letteratura italiana all’Università di Pisa, Biologia della letteratura. Corpo, stile, storia (il Saggiatore, pagine 245, euro 23,00), in uscita oggi, per proporre un quadro teorico e storico decisamente innovativo riguardo alla nascita e ai cambiamenti di quella che oggi chiamiamo letteratura, peraltro indagata assieme alle altre arti. I suoi fondamenti sono rintracciati nell’uso mirato di alcune potenzialità o propensioni biologiche (attenzione, ritmicità, capacità mimetica, metaforizzazione ecc.) che vengono però rielaborate con un’operazione «di secondo grado» (o, come si dice con espressione tecnica, “ higher level”): e grazie a una specifica analisi, veniamo a scoprire che si può identificarla con lo stile. Come questa, molte altre categorie tradizionali dell’interpretazione letteraria possono allora essere ripensate profondamente sia sul versante della poesia sia su quello della narrativa, con l’intento di dar meglio conto delle valenze conoscitive che dobbiamo attribuire tanto all’arte quanto alle scienze, sia pure in modi diversi.

Professor Casadei, lei afferma che, in relazione alla sua teorizzazione, il termine “biologia” va inteso in un’ottica culturale oltre che scientifica. Ci vuole spiegare in che senso?

«Nell’ambito della biologia s’inquadrano molti tipi di ricerca, dalla genetica sino al rapporto uomo-ambiente. Molto si discute sullo statuto della biologia come scienza, e anzi sono ormai parecchi i tentativi di creare un modello specifico, una sorta di “filosofia della biologia”. Ecco, in una prospettiva di questo tipo i rapporti fra natura e cultura, che per lungo tempo sono stati considerati solo di separazione e distinzione, possono invece di nuovo intrecciarsi: per esempio, l’uomo agisce nel proprio ambiente per comprenderlo, tende a impadronirsi persino dei suoi aspetti nascosti, e nel far questo però lo modifica costantemente».

E l’arte che posto occupa all’interno di questo rapporto dinamico?

«L’arte entra di sicuro in questo circuito fin dalle sue prime manifestazioni, come le pitture e le statuette preistoriche, che prendo in considerazione nel mio libro. È evidente lo sforzo di rappresentare esattamente certi aspetti della realtà, come gli animali da cacciare o da evitare, ma nel contempo emergono simboli che probabilmente servivano per agire sulla realtà, con la magia e in particolare con le parole scandite ritmicamente. Ecco, qui si coglie un possibile contatto fra natura e cultura: quella che poi diventerà la poesia, usata ad altissimi livelli sin dalla prima opera epica che ci è pervenuta, il Gilgameš (circa 3000 a.C.), è in prima istanza una forma che orienta le propensioni biologico-corporee alla ritmicità e alla metaforizzazione, in modo da ottenere un discorso speciale che attiri l’attenzione su determinati aspetti della realtà. A noi può sembrare adesso tutto molto semplice, ma si trattò di acquisire capacità stilistiche non scontate, sicuramente nel corso di migliaia e migliaia di anni».

I suoi studi vertono da tempo sul rapporto tra letteratura e neuroscienze. Alla luce delle sue ricerche, come cambia la concezione dell’opera letteraria?

«La novità, in particolare del mio ultimo libro, è soprattutto la piena focalizzazione di un nuovo concetto di stile. Di solito noi pensiamo allo stile come a un insieme di tratti formali, ma poi siamo costretti a dire che in effetti, se togliamo a Dante o ad Ariosto le loro caratteristiche stilistiche, le loro opere sarebbero totalmente diverse».

Come a dire che “stile” e “contenuto” di un’opera letteraria non sono elementi separabili...

«Il fatto è che lo stile è appunto quella operazione complessa che fra l’altro consente di impiegare in modo mirato alcune propensioni cognitive: e quando vediamo o leggiamo un’opera d’arte ci accorgiamo, magari inconsciamente, di questa qualità ulteriore rispetto al materiale di partenza. Nel mio saggio ho cercato quindi di fornire una definizione dello stile che comprenda anche la sua energia, su cui già rifletteva Nietzsche, e insomma la sua capacità di veicolare specifici nuclei d’informazione».

Quali sono le conseguenze di questa nuova concezione?

«Essa consente di superare i vincoli storici: noi tuttora consideriamo il lamento di Didone nel Dido and Aeneas di Henry Purcell (1689) una manifestazione somma del dolore e del pathos, oppure accettiamo che l’enfasi persino stentorea dell’inno della Champions League ci venga da un componimento di Handel del 1727. In sostanza, è anche grazie alla permanenza di alcune costanti, appunto biologiche, rielaborate stilisticamente che noi possiamo continuare ad apprezzare opere tanto lontane da noi».

Che cosa rimane di un concetto tradizionalmente applicato all’origine dei testi letterari quale quello di “ispirazione”?

«Sicuramente si tratta di una sorta di mito, ma c’è un fondamento di verità. Le grandi opere non possono essere pianificate a tavolino, bisogna riuscire a intercettare componenti profonde che non necessariamente devono essere traumatiche, sebbene spesso lo siano, almeno nella letteratura moderna. In realtà io credo che l’arte in genere e la letteratura in particolare possano veicolare visioni del mondo che creano “eventi” oppure “fantasie”, quindi narrazioni credibili o poesie oscure, realismo o fantasy, e tutto questo si traduca poi in determinati generi, che cambiano nel tempo. Ma, per tornare a quanto si diceva, ciò rientra nella nostra propensione continua a interpretare la realtà: noi agiamo su di essa e l’arte, da questo punto di vista, è una manifestazione più elevata e specializzata del nostro incessante “tendere a capire”. Goethe, nel Faust, avrebbe usato il termine Streben, una tensione inesauribile che riguarda le arti tanto quanto le scienze».

Tra gli esempi da lei addotti, c’è quello di Dante. Che cosa può insegnare la Divina Commedia in relazione al tema da lei affrontato?

«Dante è sempre fondamentale e nel mio libro cerco di indagare perché solo il suo poema, assieme ai drammi di Shakespeare, sta diventando un’icona globale e non è quindi un classico fra tanti. Dante crea un mondo possibile: se vogliamo capire il suo Empireo dobbiamo immergerci nelle sue metafore complesse e immaginarci realtà che sembrano corrispondere addirittura a quelle della fisica più avanzata. Forse non è così, ma di sicuro Dante compie uno sforzo ancora ineguagliato di rappresentare ambiti anche al di là dell’esperienza, eppure concepibili dalle nostre menti e dai nostri corpi».

Nell’ultimo capitolo del suo libro, lei parla di come il web e il cloud influiscano sulla letteratura e sui modi di interpretarla. Che cosa ci può dire in proposito?

«Cerco di interpretare l’ambiente in cui viviamo. Molti pensano che la tecnologia, e ora soprattutto Internet in tutti i suoi aspetti, sostituiscano le nostre potenzialità biologiche, ma invece semmai le potenziano e le riadattano. Così adesso abbiamo possibilità enormi per realizzare opere che superino i vincoli della pagina (come a suo tempo la stampa ha superato l’oralità) e integrino aspetti molto diversi. Non si tratta solo di accostare parole, immagini e musica, come si è sempre fatto, bensì di pensare a modalità creative davvero integrate. È una grande sfida: ancora una volta, come è accaduto in tante epoche di cambiamento, si tratterà di evitare soluzioni depotenziate, provando a interpretare la “nuvola” della globalizzazione».

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