sabato 8 gennaio 2011
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Tra i regali di Natale ricevuti, sono grato a chi mi ha dato il libro che ho letto in solitudine con più piacere, o ad alta voce a figli d’amici e di parenti: le poesie di Robert Louis Stevenson edite da Nutrimenti in un libro che riproduce anche i fregi e le illustrazioni, l’impaginazione dell’edizione originale ottocentesca (con le immagini di Charles Robinson, nella traduzione di Raul Montanari, con una nota di Paolo Mauri, a cura di Filippo Tuena).Il giardino dei versi è fatto di vere poesie in rima e di brevi divagazioni in versi, non sono racconti ma riflessioni e parentesi in versi pensate per un pub­blico di bambini ma anche, si direbbe, nell’intento di far ca­pire ai grandi che l’abbiano dimenticato qual è il territo­rio vero dell’infanzia. Steven­son ha capito l’infanzia come pochi altri (come solo alcuni grandi 'educatori-poeti', da Pestalozzi a Freud, da Ander­sen a Collodi, dalla Montes­sori a Korczak, da Bettelheim al Kubrick di Shining, hanno saputo capire). E l’esempio e la spiegazione di questo «se­greto » e di questa compren­sione lo troviamo qui, in que­sto libro, nel modo più evi­dente.L’autore di L’isola del tesoro non ha avuto un’infanzia pre­cisamente felice, è sempre stato malaticcio, e non è un caso se è poi morto in giova­ne età, a soli 44 anni, dopo a­verci regalato libri bellissimi per adulti (Il master di Bal­lantrae o Il dottor Jekyll e mi­ster Hyde ) e per ragazzi (Rapi­to e Catriona o Il principe Ot­to), bensì perfetti anche per lettori adulti. Nel suo giardino dei versi Stevenson ci parla di infanzia, e di bambini, come si diceva un tempo, pre-pu­beri, come se l’avesse lasciata appena ieri, e sapesse tornar­ci a suo piacere. I versi che sa pescare da questo tornarci den­tro non sono storie, sono descrizioni di momenti di vita dei bambini, di giochi e di sogni, e la particolarità e bellezza dei versi sta in definitiva nella meravigliosa e quasi unica capacità che egli ha di tornare all’infanzia, di scrivere come dall’infan­zia, e per l’infanzia reale e per quella a cui noi adulti sappiamo tornare con il suo aiuto di evocatore «da dentro», di mago che combatte il tempo.«Il tempo è una stagione», dice al momen­to di congedarsi dai suoi lettori. E parla ai bambini di ora - ai lettori o ascoltatori dei suoi testi: 'anche tu, attraverso le fine­stre/ di questo libro mio, potrai vedere/ lontano, lontano, un altro bambino/ che gioca felice in un altro giardino./ Ma è inu­tile che bussi alla finestra,/ e chiami quel bambino: non ti sen­te./ È tutto concentrato sul suo gioco,/ del mondo intorno gli interessa poco». Noi possiamo tornare, con la guida di Steven­son, al territorio dell’infanzia, ma i bambini veri possono non sentirci e ignorarci, ché hanno il loro, di mondo, una realtà da cui noi siamo comunque esclusi, ma che le virtù rabdomanti­che di Stevenson ci aiutano a riscoprire. E a capir meglio.Viene da attribuire questa capacità dello scrittore proprio alla malattia, e a quella sorta di sensibilità che nasce da una man­canza. Spesso è il letto il luogo di dove si dipartono i sogni e le fantasie del poeta, e questo non è a caso. Fantasia e sogno non hanno poco in comune. Il sogno è il viaggio nell’altrove più e­sotico («là dove nascono le mele d’oro,/ dove sotto un altro cielo/ galleggia l’isola del tesoro», tra pirati e pericoli, nel sole e nel mare) oppure nelle vicinanze immediate, l’orto e il giardi­no di casa, la soffitta e la can­tina, la luce o le ombre di una comune dimora dove bensì si può scorrazzare ed esplorare non diversamente che nell’al­trove, grazie alla vivezza del­l’immaginazione.È la trasfi­gurazione del reale la chiave giusta per entrare nella di­mensione della poesia, e la capacità di trasfigurare è il se­greto dell’infanzia, appartie­ne all’infanzia e a quel che di essa sanno conservare gli ar­tisti. Un fila di sedie rovescia­te diventa un treno, un basto­ne una spada, dei cubetti di legno sul pavimento una città, l’orto una giungla, la soffitta un pianeta di alieni. Sono infinite le occasioni in cui il meraviglioso si fa nor­male, e in cui il normale si fa meraviglioso. Per non parlare degli invisibili compagni di gioco di cui il bambino sa do­tarsi per reagire alla solitudi­ne, delle storie che sa raccon­tarsi nell’immobilità forzata e nel silenzio. La fantasia è inesauribile ma anche la realtà sembra esser­lo.In una delle poesie di con­gedo, A un bambino che si chiama come me, l’autore si rivolge a un piccolo Luis San­chez d’altra nazione ed evoca una Londra «metropoli immen­sa» in cui già s’incontrano Oriente e Occidente. Si parla spesso di «bimbi d’altri paesi», e l’entusiasmo per la vita e per la sco­perta delle sue varietà porta all’esaltazione di un mondo «così pieno di cose,/ che per me/ dobbiamo essere tutti/ felici come re». Tutto è avventura nell’infanzia, e tutto dovrebbe esserlo nella vita, e se l’isola del tesoro è l’infanzia, è a quell’isola che dovremmo tutti tendere, è quella l’isola che dovremmo cerca­re, per trovarvi il tesoro di una maturità che si rifiuti di tradire l’infanzia.
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