domenica 17 gennaio 2016
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È uno di quei film capaci di riscrivere le regole di un genere spesso afflitto da pigrizia creativa, il biopic, e di restituirci l’essenza di una persona in maniera del tutto anticonvenzionale. Più che una fotografia, Steve Jobs diretto da Danny Boyle, scritto da Aaron Sorkin, fresco di nomination all’Oscar, e interpretato da Michael Fassbender, anch’egli candidato alla preziosa statuetta, è un quadro impressionista. Splendori e miserie, genio e crudeltà del visionario fondatore di Apple ci vengono infatti restituiti non attraverso il solito racconto cronologico dei suoi successi e dei suoi fallimenti (come faceva il pessimo Jobs diretto da Joshua Michael Stern e interpretato da Ashton Kutcher), ma condensando i conflitti più significativi della sua vita nei minuti che precedono i lanci dei tre prodotti più importanti nell’arco della carriera di Jobs. Un dietro le quinte esistenziale e astratto, capace di riassumere battaglie, tormenti, gioie, ossessioni, errori e rivincite di una vita spesa a reinventare quella degli altri. Si parte dunque con il Macintosh nel 1984, poi si salta al NeXTbube del 1988 per finire con l’iMac del 1998. Tre atti di quaranta minuti ciascuno, realizzati come se fossero tre piccoli film, ambientati in tre spazi diversi di San Francisco, patria della seconda rivoluzione industriale. Se la leggenda nasce infatti all’Auditorium Flint al Community College De Anza, nel cuore di Cupertino, luogo dove realmente si svolse la presentazione del computer destinato a diventare per la prima volta parte integrante della vita di ciascuno di noi, il lancio del NeXTcube, atto di vendetta contro la Apple che aveva licenziato Jobs, ha luogo all’Opera, capace di restituire un’enfasi tutta teatrale alla rivalsa del genio offeso, mentre l’iMac ci proietta nel futuro anche grazie alle architetture avanguardistiche della Davies Symphony Hall. A ogni epoca e luogo corrisponde un’atmosfera diversa, restituita da uno sgranato 16mm per la prima parte, da un più morbido 35mm per la seconda e dal digitale della rivoluzionaria telecamera Alexa per la terza. Una struttura narrativa dunque adatta a raccontare tutta la complessità e le contraddizioni di un uomo che ha cambiato per sempre il modo in cui interagiamo gli uni con gli altri, ma che non ha saputo abbinare talento e bontà, che ha dedicato la propria vita al futuro e all’innovazione, ma non coltivato rapporti affettivi soddisfacenti. Ci metterà molti anni per amare sua figlia, che all’inizio si era rifiutato di riconoscere, proprio lui che non aveva mai accettato di essere stato abbandonato dai propri genitori e adottato. Una ferita attraverso la quale rileggere molti capitoli della vita di Jobs che nel film è quasi un personaggio shakespeariano, come Amleto, Re Lear o il distruttivo Macbeth (interpretato proprio da Fassbender nel film di Justin Kurzel in questi giorni sugli schermi), tormentato da spinte contrastanti, attaccato da ex compagni di viaggio che gli rimproverano l’aver voltato le spalle a loro e al passato. La vivace scrittura di Sorkin, che aveva scritto anche Social network sul fondatore di Facebook Mark Zuckerberg e che per Jobs si ispira alla biografia scritta dal giornalista Walter Isaacson, regala ritmo ed energia ai lunghissimi dialoghi che costituiscono lo scheletro del film, che inchiodano il pubblico alla poltrona per due ore e non smettono di ipnotizzarlo neppure quando il discorso si fa un po’ più tecnico.  Lo Steve Jobs di Sorkin e Boyle sarà pure un uomo impossibile, dominato da un ego incontenibile, ma non è certo privo del senso dell’umorismo, esercitato anche grazie alla sua fedele e devota assistente, Joanna Hoffman, personaggio che può contare sulla performance di Kate Winslet, candidata all’Oscar come miglior attrice non protagonista e già vincitrice del Golden Globe. I fitti scambi di battute tra loro, l’alchimia tra i due attori sono ai massimi livelli così come pure lasciano il segno gli scambi di Jobs con John Sculley, amministratore delegato della Apple, con Andy Hertzfeld, ingegnere del software, e con Steve Wozniak (interpretato da un sorprendente Seth Rogen, quasi sempre visto in ruoli comici), co-creatore del personal computer nel leggendario garage di Los Altos e deluso dall’ostinata irriconoscenza dell’amico Steve. «I tuoi prodotti sono meglio di te», gli dice con profonda amarezza. E non spaventi il fatto che il film, ambientato quasi esclusivamente in interni, abbia un impianto teatrale: gli attori sono in moto perpetuo (pare che Jobs discutesse delle cose più importanti camminando), seguiti dalla steadycam, freneticamente impegnati negli ultimi preparativi prima di ogni presentazione, caparbiamente intenzionati a far prevalere il proprio punto di vista, a rincorrere qualcuno per una risposta, a farsi inseguire per non darne. Si ride della testardaggine di Jobs, della sua pretesa di far dire « Hallo » a un computer che quel giorno non vuole saperne di parlare, della sua determinazione a essere “cattivo”, quasi che dolcezza, disponibilità e comprensione possano mettere a rischio il proprio talento. E non si rimane indifferenti al suo progressivo avvicinarsi a quella ragazzina che sembra avere la sua stessa scintilla. Lui, che secondo alcuni aveva un chip al posto del cuore, saprà trovare finalmente le parole giuste per parlare con la sua migliore creazione e per comunicarle quell’amore che nessun computer al mondo sarebbe capace di offrire.
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