giovedì 15 ottobre 2015
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La Fondazione Giorgio Castelli è stata fondata dal dottor Vincenzo Castelli per ricordare il figlio, tragicamente scomparso il 24 febbraio 2006 sul campo di calcio a causa di un arresto cardiaco mentre si stava allenando con la sua formazione iscritta a un campionato delle categorie dilettantistiche. A tentare di soccorrerlo, invano, il gemello Alessio e il fratello maggiore Valerio, suoi compagni di squadra. Giorgio, soprannominato “Il gladiatore” per la generosità del suo modo di giocare, aveva appena 17 anni. Da quel momento la Fondazione, che porta il suo nome, fa di tutto per evitare che si ripetano altre morti simili sui campi o nelle palestre. Due le attività principali: donare più defibrillatori possibili a scuole e società sportive (il numero è arrivato a 362) e tenere corsi di formazione per insegnare a usare questi macchinari salvavita a chi opera nel mondo dello sport dilettantistico.
Il ritorno in campo di Biabiany con la maglia dell’Inter dopo un anno di stop causato da un problema cardiaco scoperto al momento del passaggio, poi saltato, dal Parma a Milan a fine agosto 2014. L’operazione di Lichtsteiner per un’aritmia scoperta a causa di un malore accusato nell’intervallo della partita tra Juventus e Frosinone. Questi due eventi hanno riportato d’attualità il delicato rapporto tra sport e salute. Nel recente passato era stato il caso del «forame ovale pervio» di Cassano a mettere al centro della scena i rischi che anche gli atleti di alto livello corrono nel corso della loro attività.  Nella sfortuna di questi eventi, che compromettono per alcuni mesi la carriera agonistica, questi calciatori hanno avuto la buona sorte di poter essere seguiti quotidianamente da specialisti preparatissimi con un monitoraggio costante tra esami e controlli. Una situazione che purtroppo non si verifica tra i loro colleghi delle categorie dilettantistiche. «Non ho conoscenza diretta dei casi di Biabiany e Lichtsteiner – spiega il dottor Vincenzo Castelli, che segue da anni il problema delle morti nel mondo dello sport e ha dato vita a una Fondazione dopo la tragica fine del figlio Giorgio colpito da arresto cardiaco sul campo da calcio ad appena 17 anni – ma per quello che leggo mi sembra di capire che si tratta di situazioni di aritmia cardiaca insorte per la prima volta nel corso della carriera. È’ perfettamente possibile che accada anche dopo anni da calciatore ad alto livello. L’aritmia può manifestarsi per svariati motivi».  Nel caso dei due calciatori di Serie A è stato possibile accorgersene subito. «Purtroppo non succede la stessa cosa tra i dilettanti delle serie minori, non solo nel calcio ma anche nel basket. Magari l’aritmia si manifesta, ma non c’è un medico nello spogliatoio che la diagnostica come successo con Biabiany e Lichtsteiner. Così passa e lo sportivo non ci pensa più. Una sottovalutazione che può essere letale. In dieci anni siamo arrivati a circa 1.000 persone morte durante l’attività sportiva. E i miei calcoli tengono conto solo delle notizie che trovo sulla stampa o su internet. Quindi potrebbero essere di più. Per questo motivo ogni impianto sportivo dovrebbe avere a disposizione un defibrillatore con il personale capace di farlo funzionare. È l’unico modo di salvare vite».  A questo proposito il dottor Castelli lancia un appello: «Non bisogna snaturare la legge Balduzzi». Il riferimento è alla normativa, approvata nel 2012, che obbliga tutte le società sportive, comprese quelle dilettantistiche, a dotarsi di un defibrillatore e far seguire i corsi necessari (chiamati Bls-D nel linguaggio tecnico) ad accompagnatori, dirigenti o allenatori presenti sul campo per le partite e gli allenamenti. L’entrata in vigore ha subìto una proroga per quanto riguarda proprio le società dilettantistiche che hanno ottenuto 30 mesi di tempo in più. Ora il termine ultimo è fissato a fine gennaio 2016. «Già questa dilazione non è stata una buona notizia – commenta il dottor Castelli – perché ogni giorno in più rappresenta una diminuzione delle possibilità di salvare vite umane. Senza l’attrezzatura necessaria, le percentuali di salvataggio scendono al 3%. Ma la cosa più grave è che sento parlare di altre possibili proroghe. Spero proprio che non sia così. Oppure ho sentito dire che potrebbe esserci un obbligo relativo solo alle partite, ma non agli allenamenti. Sarebbe molto grave perché è durante la settimana che si verifica la maggioranza dei casi».  Un’altra possibile innovazione in questo campo rimanda alla drammatica fine di Piermario Morosini, stroncato da un caso di morte cardiaca improvvisa sul campo di Pescara il 14 aprile 2012, una delle scene più strazianti mai viste su un campo da calcio. «La medicina può tanto ma non può tutto. Il problema di Morosini è sfuggito alle maglie dei controlli. Per questo motivo sarebbe decisivo che, dopo ogni caso di morte cardiaca improvvisa, diventasse obbligatoria l’autopsia e si creasse un registro. In questo modo la ricerca potrebbe fare passi avanti e la prevenzione, anche all’interno dei nuclei famigliari, diventerebbe più solida. In Italia solo la Regione Veneto tiene un elenco». Più complicato invece ricorrere allo screening genetico che pure sta prendendo piede in ambito sportivo a livello internazionale. Ma i costi sono alti: solo i professionisti potrebbero permetterselo (nemmeno tutti, forse solo i grandi club). Impossibile invece sostenere spese simili tra i dilettanti dove, in alcune realtà, si fatica a digerire l’investimento per un defibrillatore. Senza dimenticare il mondo dello sport amatoriale dove i controlli sono lasciati spesso all’iniziativa del singolo senza nessun obbligo: «Una delle situazioni più a rischio è la classica partita di calcetto tra amici alla quale partecipano persone in là con gli anni poco allenate. Oppure le gran fondo di ciclismo. In questi casi, soprattutto oltre i 50 anni, è importante effettuare esami di controllo per essere sicuri. Noi con la nostra Fondazione offriamo corsi gratuiti di formazione per l’uso dei defibrillatori e le manovre di pronto intervento. Ma è una goccia del mare».
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