lunedì 21 gennaio 2013
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​Non bariamo con le parole: l’anno 2013 si annuncia greve di difficoltà, di sofferenze sociali, di delusioni economiche e di disoccupazione! È guardando a tutto questo, con gli occhi bene aperti, che bisogna richiamare alla speranza. Niente di più logico. Non è quando tutto va bene, ma quando lo scoraggiamento minaccia, che la speranza deve emergere dal profondo di noi stessi al fine di tenerci ben diritti. Penso a questo bell’avvertimento di Bernanos (nel Diario di un curato di campagna): «Il peccato contro la speranza è il più mortale di tutti, e forse il meglio accolto, il più carezzato. Occorre molto tempo per riconoscerlo, e la tristezza che l’annuncia, lo precede, è così dolce!».Adesso affonda il capitalismoL’insidioso abbattimento che ci assale, appena chiusa la parentesi delle feste, corrisponde abbastanza bene al languido peccato che tormentava Bernanos. Ma questo pessimismo, per giustificato che sia, fa parte del problema. Aggiunge melanconia alla durezza. Chiude porte e finestre. Si vede bene da dove viene tale particolare smarrimento. Bancaria all’origine, la crisi del settembre 2008 è divenuta finanziaria, poi economica, poi sociale e politica. La crisi diviene oggi «psichica». Ventiquattro anni dopo il naufragio del comunismo, è il capitalismo – minato e pervertito dalla finanza – che si indebolisce davanti ai nostri occhi. Di colpo, vaga nell’aria del tempo un accanimento demistificatore, una volontà di non farsi imbrogliare da niente, una tendenza alla demolizione di tutti i disegni e le convinzioni. Generazioni intere hanno il sentimento d’esser state fuorviate e la diffidenza tocca ora tutte le classi d’età. L’ora della sfiduciaAntichi stalinisti sgomenti d’aver scoperto la crudeltà ottusa del totalitarismo rosso; vecchi militanti anticolonialisti che vivono male la deriva di certi Paesi del Sud dove le «liberazioni nazionali» sono sfociate nello sfascio e nel massacro; antichi gauchistes sempre dolenti d’aver sostenuto i despoti di Pechino, di Phnom Penh o di Hanoi. A costoro s’aggiungono d’ora in avanti i difensori delusi del capitalismo, che lo vedono irraggiato dalla fredda logica dei mercati finanziari. L’ora è quella della «incredulità». Così entriamo in un periodo più disincantato che mai, critico fino alla derisione. Questo «guasto psichico» porta in sé l’irrisione generale, il sarcasmo e la disperazione. Il tempo è venuto dei «furbetti» a cui non la si fa. Vogliamo essere i procuratori intrattabili di tutte le illusioni, gli spettatori sarcastici di una commedia che non ci fa più ridere. Elettori, noi ci vantiamo di non avere più fiducia negli eletti. Contribuenti, sospettiamo lo Stato per tutti gli sprechi. Cittadini, giudichiamo la nostra democrazia menzognera e frivola.No all’impero del cinismoMalati, diffidiamo delle medicine. Trasgressori della legge, ci facciamo beffe della giustizia. Genitori, proclamiamo che la scuola non sa più dove va. Eccoci ebbri di lucidità e sospetto. Nel nostro foro interiore giuriamo che nessuno ci ingannerà più. Ci impuntiamo insomma – e astiosamente – in un essere furbo, di cui i blog, i tweet e i social network, per la loro violenza, portano testimonianza. Un nuovo impero ci minaccia: quello del cinismo. Ed è proprio il cinismo che fa indietreggiare, nella sua stessa freddezza, la «speranza bambina» di Charles Péguy. Ritrovare la speranza è prima di tutto comprendere che, se la coesione sociale è oggi in pericolo a causa della disoccupazione e delle ineguaglianze, la «coesione mentale» lo è di più ancora. E non si può vivere insieme senza un minimo di fiducia e di amore condiviso.Diventare paladiniOgni gruppo umano ha bisogno di convinzioni comuni e di progetti. Tra la lucidità necessaria e il cinismo chimicamente puro esiste una frontiera, un limite, una soglia che la «bambina» congiura di non oltrepassare. Edgar Morin usa, da parte sua, una bella espressione per definire l’urgenza del momento: «Abbiamo bisogno di paladini di speranza». Prendiamolo in parola. Al proprio posto, col suo stile, con i suoi mezzi e la sua energia, ciascuno di noi, come il colibrì della favola ecologista, può risvegliare la sua speranza. È il miglior modo di fare «la nostra parte».(Traduzione di Pierangela Rossi; per gentile concessione  del quotidiano «La croix»)
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