domenica 12 settembre 2010
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Negli ultimi 12 anni, nei momenti in cui sentivo che la mia mente era congestionata dalle troppe voci che ascoltava, inclusa la mia, mi sono rivolta ai sermoni pronunciati da John Henry Newman di fronte agli studenti di Oxford quand’era parroco della chiesa di St. Mary. A detta di tutti, la sua voce dal pulpito possedeva un fascino veramente speciale. Sono sicura che, da centovent’anni a questa parte, nulla di tale fascino sia andato perduto e anzi che, col passar del tempo, esso sia ulteriormente cresciuto: infatti, se c’è un tratto comune che emerge dagli scritti di Newman è che hanno tutti una «voce», una voce che è sua e di nessun altro. E, perlomeno per me, questa voce non manca mai di risuonare con eccezionale intensità dalle sue pagine, per quanto vecchio e ammuffito sia il libro che le contiene. Se posso evitarlo, non leggo mai un libro solo per cercarvi informazioni. Non mi piacciono le opere destinate all’edificazione spirituale a meno che non siano ben scritte. Non toccherei neppure la Bibbia se, al di là dei suoi aspetti contenutistici, non fosse interessante anche sotto il profilo storico, letterario e per molti altri versi. Leggo i sermoni di Newman perché sono di Newman, non perché sono sermoni. Egli è limpido come l’acqua. «Ogni mio pensiero – afferma – è solo quel pensiero, e ogni mia parola è solo quella parola». Il suo modo di argomentare è così puro che finisce per essere rivoluzionario anche nella forma. Egli non segue un percorso logico lineare, ma prevalentemente interiore, che lo conduce a esplorare i più reconditi recessi dei temi che affronta. Con Newman è impossibile prevedere dove andrà a parare. Interamente assorbito dalle verità che si sforza di penetrare, egli sviluppa i suoi ragionamenti con totale disinvoltura e libertà, senza preoccuparsi della piega che sembrano prendere sul piano morale. Egli è fermamente determinato a cogliere, grazie a un’accurata introspezione psicologica, il nucleo etico di ogni argomento, riuscendoci in pieno. Come esempio di tale procedimento propongo il sermone «Obbedienza senza amore»: l’esempio di Balaam, perché ritengo illustri non solo i suoi tipici schemi mentali ed espressivi, ma anche, e in modo più evidente di ogni altro, il tema dell’amore di Dio, che a mio avviso può essere definito il motivo centrale della riflessione di Newman. E all’investigazione di questo tema è esplicitamente dedicato il suo sermone su Balaam, il quale, egli sottolinea, «era un uomo di nobili principi, onorato e coscienzioso […]. Non si limitava a parlare di religione, ma obbediva ai suoi precetti; stando così le cose, percepiremo ancor più intimamente il valore dei nobili sentimenti che di tanto in tanto si lasciava sfuggire di bocca e che, se egli si fosse dimostrato meno fermo nella sua condotta, avrebbero potuto passare per semplici parole, le parole di un abile confezionatore di discorsi, un sofista, un moralista o un retore, come quando dice: "Possa io morire della morte dei giusti, e sia la mia fine come la loro"». Non è un ritratto ironico. Balaam – prosegue l’autore – era un autentico prodigio di grazia, rettitudine e pietà, al quale mancava soltanto l’ingrediente essenziale per la piena fioritura della sua anima: l’amore di Dio. Newman era convinto che i suoi connazionali fraintendessero enormemente la natura divina quando davano per scontato che il Signore approvasse gli standard esteriori che loro avevano approvato. All’epoca di Newman, infatti, vi era un importante movimento moraleggiante, ma anche ai giorni nostri vi è una forte rivendicazione moralistica, e il peggio deve ancora venire: prima o poi spunteranno ovunque cittadini etici e «asettici», destinati a una sempre maggiore prosperità e visibilità, in segno di pubblico riconoscimento per le loro virtù. A tale proposito, Newman afferma: «Ma per chi si fa guidare dalla Scrittura è del tutto evidente che anche l’uomo più coscienzioso, devoto, onorato e di nobili principi (uso questi termini nella loro accezione comune, non in quella scritturale) può trovarsi dalla parte del male, può essere uno strumento di Satana per maledire – ove ciò fosse possibile –, o quantomeno sedurre e indebolire, il popolo di Dio». Il famoso grido scandalizzato di Charles Kingsley: «Ma allora che cosa intende il dottor Newman?», era tipico dei moralisti cristiani dell’epoca. Appartiene all’insegnamento dottrinale di tutte le confessioni cristiane il principio per cui, senza la carità, siamo come un bronzo che risuona e un cembalo che tintinna. Ma Newman mette in luce alcune delle allarmanti implicazioni di questo poetico versetto. Che cosa intende? Che Dio non ha studiato a Rugby: ecco, più o meno, che cosa intende. Le persone serie invocano tuttora, di tanto in tanto, un «ritorno agli standard etici del cristianesimo», alludendo a quei codici di rispettabilità che sono sorti nell’Occidente cavalleresco dalla fede cristiana. Molti ritengono che sia la morale ciò che conta; il cristianesimo può anche sparire. Io non sono un’esperta in materia, ma percepisco sempre, sotto queste rivendicazioni e pressioni di stampo moralistico, un bisogno di mettersi in mostra. Mostriamo agli altri – dicono costoro – cos’è lo spirito di servizio; riscopriamo l’austerità, lavoriamo sodo, ripuliamo le nostre strade; la moralità non dev’essere solo essere messa in pratica, dev’essere anche vista; torniamo all’ipocrisia dei nostri antenati: a Dio piaceva così tanto quando tutti andavano in chiesa e non commettevano adulterio! Il peculiare contributo di Newman a quest’ambito di studio consiste nell’affermare che perfino le persone coscienziose e di nobili principi morali possono trovarsi dalla parte del male.Egli sostiene che, per quanto ispirate e onorevoli siano, esse possono essere strumenti di Satana per sedurre e indebolire il popolo di Dio. Inoltre, soltanto Dio sa chi è realmente gradito ai suoi occhi. Il vero orientamento di ogni anima è un segreto non facile da discernere. E' grazie a Newman che sono diventata cattolica. Né i martiri decapitati della cristianità, né le suore mistiche ed estatiche della tradizione europea, né le cinque prove dell’esistenza di Dio dell’Aquinate, né gli opuscoli dei miei conoscenti cattolici sono stati in grado di fornirmi risposte paragonabili a quelle che ho trovato in Newman. Ai suoi tempi, la sua forza di persuasione era notevolmente temuta. Ma su cosa si basava tale forza? Sulla semplicità del suo modo di ragionare e di parlare. La semplicità è la più sospetta delle qualità: essa è fonte di grandissimo turbamento. Penso sia stato questo, più che i suoi effettivi insegnamenti dottrinali, ad aver suscitato così tanti sospetti attorno al parroco della chiesa di St. Mary. James Anthony Froude, all’epoca studente a Oxford, ha lasciato uno dei resoconti meno estatici dello stile predicatorio di Newman: «Ho frequentato la sua chiesa e l’ho sentito predicare domenica dopo domenica; si dice che fosse insidioso, che conducesse astutamente i suoi discepoli alle conclusioni a cui si era prefisso di portarli, mentre i suoi veri scopi restavano accuratamente occultati. E invece, egli era il più trasparente degli uomini. Ci diceva quella che per lui era la verità. Non sapeva dove lo avrebbe portato».
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