venerdì 16 luglio 2010
Lo scrittore nigeriano confessa perché non percepì gli attentati come una svolta: «Noi avevamo già imparato a vivere nel terrore».
COMMENTA E CONDIVIDI
Siamo continuamente bombardati dall’affermazione che il mondo che conoscevamo è finito l’11 settembre 2001. Non riesco a condividere questa prospettiva. Da un punto di vista strettamente personale trovo profondamente simbolico il fatto che io quel giorno, in quanto unico passeggero africano sul volo Londra-Los Angeles della British Airways, sia stato l’ultimo su quell’aereo a sapere cosa fosse successo, e forse uno degli ultimi abitanti del globo a sapere che il mondo aveva subito probabilmente una trasformazione definitiva. Ciò che avvenne è molto semplice: la mia routine di viaggiatore – l’aereo, mi dispiace doverlo ammettere, è diventato di fatto la mia terza o quarta casa – è piuttosto banale. Approfitto dell’isolamento totale per lavorare un po’, mangiare quando è ora, sonnecchiare di quando in quando, bere tutto il vino che mi va – contrariamente alle indicazioni dei medici – ma soprattutto per instaurare dialoghi a volte molto intensi con il mio computer portatile. L’11 settembre 2001, la mia routine fu la stessa. Quando è successo il fatto stavo probabilmente facendo un sonnellino. Quando mi svegliai mi rimisi diligentemente a lavorare al computer. Fui abbastanza sorpreso quando, a otto o nove ore dal decollo, sentii il capitano annunciare che ci stavamo avvicinando a Manchester; la sorpresa fu lieve, dal momento che gli Stati Uniti usano liberamente i nomi delle città di tutto il mondo, e così immaginai che il maltempo avesse costretto il comandante a seguire una rotta alternativa portandolo a sorvolare una qualche città americana chiamata Manchester invece della solita Boise, in Idaho, che dopo averla sentita nominare dalla cabina di comando ogni volta che ci avvicinavamo a Los Angeles mi era diventata familiare. Tuttavia, quando pochi minuti dopo la stessa voce annunciò che stavamo attraversando il confine gallese, non potei non domandarmi se non ci fossero troppe coincidenze. Prima che avessi il tempo di realizzare che cosa stava succedendo, la comunicazione successiva mi informò che eravamo in procinto di atterrare a... Cardiff! Suonai il campanello e arrivò lo steward. Perché, chiesi, a Cardiff? Potevo sapere in quale parte degli Stati Uniti si trovava? Il brav’uomo sgranò gli occhi e mi fissò. Non sapevo che in mezzo all’Atlantico avevamo invertito la rotta? Disse che negli Stati Uniti c’era stato un security incident e tutti gli aerei erano stati dirottati su altri scali. Non era in grado di darmi ulteriori spiegazioni. Non mi preoccupai troppo, non era la prima volta che per problemi tecnici il mio aereo faceva dietro front in mezzo all’Atlantico. Questo è il momento di confessare pubblicamente la mia convivenza con una paura del tutto personale. È stata la paura a insegnarmi a viaggiare con il solo bagaglio a mano. Ho sempre viaggiato leggero, ma questa abitudine diventò de rigueur quando in Nigeria vigeva il regime del terrore di Sanni Abacha. I metodi di questa dittatura erano talmente scellerati che gli agenti non si facevano scrupoli a introdurre merce di contrabbando, in particolare droghe pesanti, nei bagagli dei suoi oppositori, per poi denunciare agli ufficiali della dogana l’arrivo imminente di un barone della droga. La paura che provavo per Abacha mi trasformò così in uno di quei passeggeri senza bagaglio di cui su qualsiasi volo ci si può fidare, di quei viaggiatori che escono per primi alla dogana. Quel giorno uscii senza problemi. Mi accomodai con un libro da leggere nella navetta pronta per portarci in albergo. Un’ora dopo ero ancora seduto nella navetta, e così anche un’ora e mezzo e poi due ore dopo, sempre più impaziente, assieme a un gruppo di altri passeggeri. Cardiff non pareva abituata ad accogliere così tanti jumbo contemporaneamente, e gli addetti ai bagagli erano nel caos più totale. Scesi in cerca di qualcuno con cui protestare per il ritardo, perché volevo sgranchirmi le gambe, capire quale fosse l’albergo che ci era stato assegnato e cercare un taxi; poi scorsi alcuni dei miei compagni di viaggio raccolti intorno a un telefono cellulare, mentre altri facevano la coda per i bagagli. Solo allora cominciai a sospettare seriamente che all’origine della nostra inversione di rotta ci fosse qualcosa di veramente eccezionale. Mi avvicinai al proprietario del cellulare, che stava riferendo direttamente a chi gli stava intorno le novità dagli Stati Uniti. Fu così che venni a sapere che il mondo che avevo conosciuto pareva essere svanito, o essersi modificato al punto da risultare irriconoscibile. Ecco: devo confessare che a me il mondo sembrava sempre lo stesso, non solo all’apparenza ma anche per come lo percepivo dentro di me. Dalla Nigeria a Manhattan, la scia della paura si era dipanata ed estesa fino ad avviluppare il mondo intero, mettendo in guardia i suoi abitanti sul fatto che non esistevano più distinzioni tra coinvolti e non coinvolti.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: